Ancora arrivi a Lampedusa dove si commemorano le vittime del mare. Le testimonianze dei migranti siriani

Giorni di sbarchi e commemorazioni a Lampedusa. In questo lungo ponte di Ognissanti, l’isola ha assistito, in alcuni luoghi simbolo del suo territorio, alla celebrazione di commemorazioni sentite e partecipate, cui hanno preso parte migranti e Lampedusani in un contesto di intima condivisione. Ma a scandire i tempi di queste cerimonie, in queste ultime sere, con una cadenza ormai consolidata, nuovi sbarchi, che hanno continuato a interessare i moli dell’isola.

Si tratta di arrivi numericamente piccoli: il primo ha avuto luogo nella notte tra il 2 e il 3 novembre, a un mese esatto dalla tragedia degli Eritrei. Un’idrobarca della Guardia Costiera ha raggiunto verso le 3.30 circa il molo Favaloro di Lampedusa, con a bordo 17 migranti algerini e 2 Siriani; tra di essi una sola donna. I migranti riferiscono di esser partiti la mattina precedente dalla Tunisia, dopo aver atteso alcuni giorni sul barcone nel porto prima che le condizioni meteo permettessero una navigazione sicura. L’imbarcazione avrebbe poi raggiunto da sola, dopo circa 20 ore di traversata, l’isolotto della spiaggia dell’Isola dei Conigli, dove alcuni dei migranti erano già sbarcati prima di essere raggiunti dal SAR della Capitaneria di Porto. Un uomo siriano presente sul barcone racconta i drammatici eventi che lo hanno spinto alla fuga dal suo paese in guerra. E’ un uomo visibilmente distinto e di una certa cultura, confermata dal buono inglese in cui racconta la sua storia; è stato incarcerato tre volte per volontà delle milizie di Assad, ha subito scosse di elettroshock durante la detenzione, e ha potuto lasciare la prigione solo sotto pagamento di una cauzione di 10 mila dollari prestatigli dal fratello. Parla poi dei lunghi mesi in Tunisia, cui era giunto con la moglie fuggendo dalla Libia, durante i quali ha cercato vanamente un ingresso legale in Europa tramite visto, per poi vedersi costretto a percorrere la via della clandestinità per sbarcare in Italia. Il secondo sbarco ha invece avuto luogo la sera del 3 novembre, quando intorno alle 22.00 un’imbarcazione della Guardia Costiera ha condotto presso il molo Favaloro una trentina circa di profughi siriani, tra cui una decina di donne e circa 6 bambini. I migranti erano partiti due giorni prima dalle coste libiche, e si sarebbero persi poiché non in grado di interpretare la localizzazione indicata dal GPS. Nessuno di loro era infatti un navigatore esperto; ad essi era stato fornito soltanto un telefonino e un numero telefonico svizzero da contattare in caso di difficoltà, oltre al satellitare e qualche raccomandazione sulla rotta da seguire. Il numero di telefono, stando alle loro testimonianza, sarebbe quello della Croce Rossa di Ginevra che, sulla base dell’indicazione del GPS comunicatale telefonicamente dai migranti stessi, avrebbe localizzato il barcone in acque italiane in prossimità di Lampedusa e avrebbe quindi fornito loro il numero della sede locale della Capitaneria di Porto. Una volta allertata dai migranti, la Guardia Costiera avrebbe poi raggiunto il barcone nell’arco di un’ora circa. Secondo il racconto di un giovane Siriano, il viaggio sarebbe costato, ad esclusione dei bambini, intorno ai 1.500 $ a persona, per i quali sono occorsi mesi di lavoro e risparmi, visto che il prezzo è da considerarsi il doppio trattandosi principalmente di nuclei familiari. Il giovane racconta di lunghi mesi di lavoro e vessazioni subite perché in Libia, ci spiega, se sei straniero diventi oggetto di continue minacce, soprusi, ricatti e furti. O di morte, come è successo ai suoi vicini, derubati e uccisi da uomini libici che avrebbero poi portato con sé la giovane figlia. Ma nessuno può denunciare i fatti cui assiste, perché, prosegue, condannerebbe a morte certa anche se stesso e la propria famiglia. In Libia non ci sono regole, vige un regime di paura, di minacce, di violenze impunite a danno degli stranieri, in una società in mano alle mafie che comandano nell’indifferenza di un’autorità inerme. A nulla serve rivolgersi alle forze dell’ordine perché, afferma, sanno solo rispondere “don’t worry” senza di fatto intervenire mai. Il ragazzo mostra i segni di una ferita profonda subita come avvertimento di morte se non avesse dato la propria auto ai ricattatori libici. Inutile il suo appello alla polizia. La ferita gli è costata un ricovero in ospedale e due mesi di degenza. In Libia era giunto dopo esser scappato dalla guerra in Siria, un paese nel caos dove non funziona più nulla da cui chi può, se può permetterselo, fugge. Ma la Libia, prosegue, si è rivelato un altro incubo, e l’unica via d’uscita è stata la traversata in barca verso l’Italia, dove, racconta, inizialmente non aveva nemmeno programmato di venire. Anche perché, prosegue, oltre al pericolo di naufragio in mare, si corre anche il rischio di essere accostati dalle imbarcazioni di bande libiche armate, che perlustrano le coste e aprono il fuoco sui migranti; un gioco di mafie nel quale, spiega, la vita di chi fugge dipende dagli accordi tra scafisti e questi banditi dei mari, i quali non esitano a sparare sui barconi se non hanno ricevuto dal gestore della tratta la loro quota nel lucroso business del traffico di persone. Tante le testimonianze raccolte, diverse le storie ma simile la disperazione che spinge alla fuga in mare. Alcuni Eritrei sbarcati la mattina del 31 ottobre raccontano dei lunghi viaggi dall’ex-colonia italiana, delle differenti tappe e delle lunghe soste, passando per l’Etiopia, il Sudan, affrontando il deserto stipati nei camion senza spazio per sedersi, senza cibo e acqua per 5/6 giorni. Un giovane cerca di spiegare le ragioni della partenza; parla dello sfruttamento in Eritrea dove si è costretti a lavorare forzatamente nei cantieri, per costruire dighe, strade, ponti, con salari quasi pari a zero, non sufficienti per sfamare le famiglie. Tuttavia è impossibile, spiega, ottenere un visto per l’Europa, e l’unica strada è la fuga clandestina. Racconta delle carceri in Libia in cui è stato rinchiuso per mesi e che, afferma, a volte sono anche meglio della libertà perche in fondo sono almeno un rifugio in cui nascondersi. Racconta infatti che in Libia vivere in libertà significa subire continuamente minacce, ritorsioni, e violenze come testimoniano le ferite sul corpo, e non resta allora che condividere in centinaia gli stessi spazi, in attesa di essere imbarcati per l’Italia e tanti, riferisce, attendono ancora di partire. A fronte di questi nuovi arrivi, proseguono sempre al rilento i trasferimenti degli ospiti dal centro di prima accoglienza dell’isola; un’ottantina circa i migranti, di diverse nazionalità e categorie, trasferiti venerdì primo novembre. Al CSPA erano presenti fino a ieri circa 730 ospiti di miste nazionalità, alcuni dei quali costretti a dormire all’aperto o dentro gli uffici dell’amministrazione che vengono loro aperti per proteggersi durante le notti piovese, essendo troppo affollati gli spazi al coperto destinati ai migranti. Non hanno ancora lasciato l’isola gli Eritrei superstiti alla tragedia del tre ottobre scorso, trattenuti sembrerebbe in quanto testimoni delle dinamiche del naufragio per le quali è in corso un’indagine della magistratura. I componenti del “comitato” che essi stessi hanno costituito in loro rappresentanza, affermano di comprendere le ragioni del loro trattenimento e si mostrano disposti a collaborare a patto che le indagini non durino ancora a lungo. Sono stanchi di vivere negli spazi affollati del CSPA, stressati dal perdurare della loro presenza nell’isola, luogo che inevitabilmente associano al ricordo del dramma che hanno vissuto. Sono impazienti di iniziare il loro percorso in Italia e chiedono di trasferire le indagini e il processo altrove così da poter lasciare l’isola. Hanno appreso in via ufficiosa che il comune di Roma li attende, che il sindaco Ignazio Marino ha dato disponibilità ad accoglierli tutti, ma è stato loro spiegato che c’è un problema di giurisdizione, e che le indagini devono proseguire sotto la competenza giudiziale di Agrigento. Sanno anche che occorre dare priorità ai nuclei familiari e ai minori, ma nel frattempo vedono i “new-comers”, come loro li definiscono, sbarcare sull’isola e lasciarla prima di loro, senza avere notizia sul giorno della loro partenza. Ieri i migranti presenti sull’isola sono stati protagonisti di una lunga giornata di commemorazioni, e hanno visto la partecipazione della comunità lampedusana che con loro ha ricordato e pregato insieme in una lunga celebrazione scandita da canti, preghiere, e rituali simbolici. Tra tutti, il più significativo è stata la piantumazione degli alberi in un’area della riserva naturale nei pressi di Cala Galera, in memoria delle vittime eritree del naufragio di un mese fa e del quale ieri ricorreva il trigesimo. Ad introdurre l’iniziativa, realizzata con il supporto di Legambiente, sono intervenuti il Sindaco Giusi Nicolini e il Presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, giunto a Lampedusa il giorno prima per rendere omaggio presso il cimitero ai defunti di tutte le tragedie del mare. Il Sindaco Nicolini ha promesso l’impegno di dare a tutti gli alberi un nome, i nomi delle 366 vittime, ed ha espresso l’augurio che, attraverso questo nuovo giardino della memoria, Lampedusa possa restituire la vita a coloro cui è stata tolta ingiustamente. Perché Lampedusa, prosegue il suo sindaco, non sia spettatrice inerme, ma testimone attiva, e il Mediterraneo possa diventare un orizzonte di futuro e non un confine contro cui tutto si infrange e muore. Il Presidente Crocetta ha espresso invece rammarico per l’incapacità dell’Europa di comprendere la bellezza e la ricchezza delle culture che bussano alle sue porte, come quella del popolo eritreo, in cui si sono incontrati le civiltà ebraica, cristiana e musulmana. Ma l’Europa, prosegue Crocetta, non è composta solo da chi non è in grado di comprendere lo straniero. Come ovunque nel mondo, anche in Italia c’è un’altra metà che ha nel cuore il seme della fratellanza, sentimento di cui ha dato grande prova Lampedusa. Ha preso la parola anche il Presidente nazionale di Legambiente, il quale ha auspicato che partendo da Lampedusa sia tutto il Paese a cambiare atteggiamento, e che al più presto il Parlamento possa eliminare quegli elementi di inciviltà nelle politiche sull’immigrazione. L’incontro è poi proseguito nel pomeriggio presso la porta d’Europa, dove i rappresentanti cristiani e musulmani della comunità eritrea e la comunità parrocchiale locale, hanno dato vita a una cerimonia spirituale ecumenica, in cui si è letto, cantato e pregato sia in italiano che in tigrigna, mentre al centro di un semicerchio umano è stato acceso un braciere. Significative le parole di Don Mimmo, parroco dell’isola, che rivolgendosi ai migranti superstiti, ha chiesto loro perdono. A conclusione di questa lunga giornata della memoria, un momento di festa ha coinvolto migranti e Lampedusani, che hanno condiviso nel sagrato della Chiesa una cena a base di Zigni, piatto di carne e salsa speziata tipico della cucina eritrea. Una cena che è stata anche pretesto di confronto, di comprensione reciproca e di ascolto delle loro richieste. Chiedono di avere qualche vestito migliore e delle scarpe decenti, cosa di cui si sta occupando la Caritas in collaborazione con alcune marche note. Già nei giorni scorsi sono stati distribuiti vestiti e in tanti sono accorsi per ritirare jeans, camicie, e scarpe nuove e buttare così le tute sintetiche fornite loro dal centro di accoglienza, come sospinti dall’istinto di spogliarsi di quei marchi della diversità, ed indossare anche loro il diritto di sentirsi normali. A loro e a tutti i defunti del mare, infine, il Sindaco Nicolini ha voluto dedicare la corona di alloro deposta oggi 4 novembre, festa delle Forze Armate, presso la stele ai caduti delle Mafie in Piazza Libertà. Anche loro sono vittime di Mafia, la mafia delle tratte, sostiene il Sindaco Nicolini che conclude con l’auspicio che Lampedusa possa sentirsi parte di un’Europa più giusta. La Redazione di Borderline Sicilia Onlus, che ringrazia di cuore Francesco Vigneri che con grande passione e bravura ha collaborato con la nostra organizzazione raccontando i mesi più neri della storia dell’immigrazione in Italia.