I migranti in quarantena e le vite ineguali

I migranti che arrivano in Europa conoscono bene il significato di confine. Così come le politiche di controllo e repressione che esso prevede. In tempi di pandemia, il confinamento assume un ulteriore significato toccando anche il piano della salute: misure di prevenzione del contagio da Covid-19 sfociano in lunghe ed arbitrarie segregazioni che fanno ancora una volta del corpo del migrante un campo di lotta, dominato da politiche di negazione della vita. Oggi la violenza strutturale contro i migranti si ridefinisce negli spazi e nei tempi di uno stato di emergenza sanitario: in Sicilia le navi e i centri per la quarantena fungono da piattaforme hotspot e da luoghi di pre-rimpatrio. E i migranti, in nome della salute, sono ridotti ancora una volta a vite sacrificabili e a corpi da selezionare e respingere.

 

Esclusione e segregazione in tempi di pandemia

Con il decreto del capo dipartimento della Protezione Civile del 12 aprile 2020 – che ha validità per tutta la durata dell’emergenza sanitaria da Covid-19 – sono state individuate le misure organizzative e le procedure per fornire assistenza sanitaria alle persone migranti soccorse in mare, predisponendo luoghi dove trascorrere la quarantena prevista dalle disposizioni nazionali, anche all’interno di unità navali. Queste misure di emergenza prevedono il controllo sanitario tramite il confinamento nei centri quarantena – tanto nelle navi GNV quanto in CAS, CARA, Hotspot o altre aree di centri di accoglienza o detenzione in Sicilia e in Italia – dove i migranti devono trascorrere la quarantena, per un tempo che sappiamo superi sistematicamente 15 giorni, ora ridotti a 10, previsti per legge.

Così il trattenimento nelle navi quarantena e nei centri quarantena rappresenta un atto di esclusione del corpo del migrante, posto in uno spazio al di fuori – per lo più in mezzo al mare – per una questione di “salvaguardia della salute pubblica”.

In questo senso, le quarantene, sebbene siano dispositivi legittimi in ordine di prevenzione del contagio e di tutela della salute pubblica, risultano discriminanti dal momento che vengono applicate in questa forma e in questi tempi solamente alle persone migranti: durante l’estate passata, i migranti in arrivo a Lampedusa e in Sicilia sono stati sottoposti sistematicamente a tamponi e quarantene a differenza dei turisti stranieri per cui non era prevista nessuna limitazione di questo tipo. Si tratta dunque di dispositivi privativi della libertà personale che si differenziano in maniera evidente dalle misure a cui sono stati sottoposti i cittadini stranieri giunti in Italia con altri mezzi.

Non solo, nelle settimane scorse sono stati documentati trasferimenti di richiedenti asilo da alcuni CAS di Roma in cui vivevano – già inseriti nel tessuto sociale del contesto – ad alcune navi a Palermo, Bari e Trapani, per svolgere lì la quarantena dopo essere risultati positivi. Si è trattato di prassi illecite che hanno provocato lo sradicamento forzato delle persone dal territorio di appartenenza, la perdita del posto presso i CAS, l’allontanamento dalle questure per seguire l’iter della richiesta d’asilo.

Le misure anti-contagio e per il contenimento del virus destinate a migranti e richiedenti asilo sono diventate così strumento discriminatorio che è sfociato nella creazione di ghetti dove isolare persone appena approdate in Italia o già residenti, spesso senza garantire la tutela dei diritti umani.

 

Quarantena o approccio hotspot?

Da un punto di vista politico, le navi quarantena e i centri quarantena rappresentano ulteriori strumenti per attuare politiche di selezione e respingimento dei migranti.

Infatti, sembrano essere utilizzati come “hotspot galleggianti” – ovvero, piattaforme in mare per operare la selezione arbitraria e preventiva tra richiedenti asilo e migranti economici – e come CPR nel predisporre trasferimenti presso aeroporti e successivi rimpatri.

Emblematico il caso dei migranti di nazionalità tunisina, i cui rimpatri – normati dai recenti accordi tra Italia e Tunisia – sono aumentati con partenze regolari fino a tre volte alla settimana. Si tratta di procedure che predispongono in maniera sistematica l’allontanamento delle persone tramite respingimenti ed espulsioni. L’ultimo di una lunga serie, il rimpatrio del 3 novembre ha riguardato 40 migranti tunisini ospiti della nave Rhapsody che sono stati trasferiti al CPR di Gradisca senza alcun accesso alla tutela legale.

In numerosi casi, ai migranti è stata imposta una quarantena protratta fino a mesi – nonostante l’esito del tampone negativo – a cui sono seguiti rimpatri, senza la possibilità di manifestare e formalizzare la richiesta di protezione internazionale.

Ad aggravare e consolidare questa condizione di abus,i è la sistematica mancanza di informativa legale e sociale, la negligenza nell’individuazione di vulnerabili e minori, lo stato di abbandono a cui sono lasciati i migranti, soggetti a violazioni gravi della loro libertà e dei loro diritti.

 

Criticità delle navi quarantena e dei centri Covid in Sicilia

Le navi GNV predisposte dal governo per la quarantena dei migranti sono la Adriatico, l’Allegra, la Rhapsody, l’Azzurra, la Suprema e l’Aurelia, impegnate in una costosa rotazione tra i porti di Lampedusa, Porto Empedocle, Palermo, Augusta e Trapani, traghettando le persone da un approdo ad un altro. Si tratta di presidi sanitari in cui la Croce Rossa Italiana è responsabile delle misure di assistenza sanitaria, di mediazione linguistico culturale, supporto psicologico e identificazione delle vulnerabilità.

Nei centri quarantena in terra la situazione è molto critica, con poco personale a lavoro e le forze di polizia che presidiano gli spazi. Sono stati riportati gravi episodi di violenza fisica sulle persone trattenute, oltre che sequestro di oggetti personali.

In generale, le condizioni che emergono dalle navi quarantena e dai centri Covid disseminati in Sicilia raccontano di centri che sostanzialmente non salvaguardano la salute dei soggetti migranti, degli operatori e degli individui tutti.

Infatti, da un punto di vista strettamente sanitario, il più delle volte questi luoghi non permettono il totale rispetto delle norme anti-Covid, non garantiscono il distanziamento sociale e l’isolamento dei positivi al virus  – i quali molto spesso vivono nelle stesse aree dei negativi – e non assicurano una completa assistenza sanitaria e psicologica.

Inoltre, abbiamo rilevato che le quarantene vengono protratte anche in condizioni di negatività ripetuta al tampone, tramutandosi di fatto in trattenimenti immotivati. In particolare, nella cosiddetta “area Covid” del CARA di Pian del Lago a Caltanissetta i tempi della quarantena arrivano a durare mesi. Qui, le condizioni igieniche sono critiche e per un periodo i migranti sono stati costretti a dormire su materassi negli spazi esterni, in piena insicurezza sanitaria e promiscuità.

Per queste condizioni, numerosi sono stati i tentativi di suicidio delle persone trattenute nei centri Covid.

Non solo, nel corso di questi mesi le navi e i centri hanno accolto migliaia di minori, famiglie, donne, tra i quali abbiamo rilevato persone con patologie importanti – come diabete, problemi cardiaci, disabilità – o serie condizioni di salute non relative alla contrazione del virus – come torture e abusi fisici – che non vengono prese in considerazione e che in più di un caso hanno provocato l’aggravamento delle condizioni sanitarie se non la morte delle persone in questione.

 

Soffrire e morire in quarantena: Bilal, Anwar, Abou, Abdallah

Ad oggi i centri quarantena sono legati alla morte di 4 persone:

Bilal Ben Messaud, tunisino di 22 anni, a maggio scorso si è gettato dalla nave quarantena Moby Zazà – a largo di Porto Empedocle – dopo giorni e giorni di permanenza prolungata, nonostante la negatività al Covid-19. L’esasperazione di un’attesa immotivata lo ha spinto a tuffarsi in acqua, desideroso di raggiungere a nuoto la terraferma.

AnwarSied, eritreo di 20 anni, morto durante una protesta nel centro di Villa Sikania, a Siculiana, a causa di una quarantena reiterata che aveva esasperato gli animi: mentre scappava dal centro è stato investito da un’automobile nel pieno della notte.

Abou Dakite, ivoriano di 15 anni, soccorso e salvato in mare da Open Arms insieme ad altri 200 naufraghi nel settembre scorso, morto all’ospedale Cervello di Palermo, dopo essere stato in quarantena sulla nave Allegra. Il ragazzo segnalava da giorni un forte malessere a cui pare non sia corrisposta la giusta assistenza sanitaria.

Abdallah Said, minore somalo, morto il 15 settembre all’ospedale Cannizzaro a Catania, dopo la reclusione sulla nave quarantena Azzurra, situata ad Augusta. Abdallah soffriva di tubercolosi e le sue condizioni si sono aggravate dentro la nave che avrebbe dovuto proteggerlo e curarlo, fino a morire per encefalite a Catania.

Sulla morte di Abdallah sono ancora in corso accertamenti sotto la guida della tutrice del minore e del suo avvocato. Una morte che insieme a quella di Abou costituisce un precedente inaccettabile sulla tutela dei MSNA in tempi di pandemia.

Proprio sulla base della violenza subita da Abou, ad ottobre è stato depositato un esposto alle Procure minorili di Palermo e Catania da parte di varie associazioni che hanno richiesto l’immediata discesa dei MSNA dalle navi quarantena, in quanto luoghi non adatti alla protezione e alla tutela di minori. Le associazioni hanno denunciato gli abusi su questi soggetti e hanno continuato la campagna per chiedere verità e giustizia sulla loro scomparsa, nonché la disposizione di sbarchi immediati dei minori presenti sulle navi quarantena.

A seguito di questo esposto, il 4 novembre, circa 100 MSNA sono stati fatti salire sulla nave di linea Cossyra verso Porto Empedocle e sono stati trasferiti nei centri Covid di Agrigento e di altre province – che probabilmente diventeranno centri Covid per minori – dove verranno assegnati loro, come tutori, i sindaci locali.

 

Lotte per la salute e per la vita dei/delle migranti

L’esperienza di alienazione e umiliazione che i migranti devono subire ai confini d’Europa e nelle terre di arrivo è inseparabile dalle lotte per il riconoscimento dei propri diritti.Infatti, tra le disposizioni organizzative nazionali, le misure di contenimento, le prassi illegittime e repressive si inseriscono gli atti di protesta dei migranti: in queste routine normalizzate, la presenza del migrante – che incorpora la violenza strutturale della detenzione – viene messa in gioco fino a pratiche estreme come l’autolesionismo.

Due settimane fa, nove migranti hanno ingoiato lamette e vetri in segno di protesta per le condizioni di trattenimento prolungato vissute sulla nave Rhapsody a Palermo.

Una settimana prima alcuni migranti detenuti nell’area covid di Pian del Lago a Caltanissetta hanno organizzato l’ennesima protesta contro i trattenimenti prolungati, arrampicandosi sui tetti della struttura. Già nelle settimane precedenti erano stati registrati  proteste in forme e modalità differenti, le cui testimonianze video sono state fatte circolare dai migranti stessi e dalle associazioni solidali sui canali social.

In tutta la Sicilia sappiamo che sono in corso da mesi proteste, incendi, digiuni, atti di autolesionismo, diffusione di comunicati, scioperi dei migranti nei centri e sulle navi quarantena. Le richieste sono quelle di essere tutelati a livello sanitario, separando i negativi dai positivi al Covid-19; di accedere alle cure mediche per patologie pregresse; di poter manifestare la loro richiesta di asilo; di essere liberati dopo trattenimenti dalla durata illegittima; di non essere rimpatriati. Sono i migranti stessi – insieme ad attivisti e solidali esterni – a ribadire e a negoziare la loro presenza, con pratiche corporee radicate nella violenza strutturale.

 

Le vite ineguali

Dal soccorso in mare all’approdo, dal confinamento nelle navi quarantena a largo della Sicilia alla ridiscesa in terra, la frontiera del Mediterraneo si sposta dal mare alla terraferma e dalla terraferma al mare.

E così impone trattenimenti prolungati, respingimenti e detenzioni, il cui scopo va ben al di là della gestione sanitaria del virus.
In questo scenario, il diritto alla vita e alla salute varia in funzione della nazionalità e della provenienza, sancendo il disomogeneo accesso alle cure tra coloro che nascono a sud o a nord del Mediterraneo.

Infatti, è drammatico constatare come la valorizzazione del diritto alla salute e alla vita in senso astratto – come bene supremo – non impedisca la valutazione differenziale delle vite concrete: come può l’obbligo nazionale e internazionale di protezione delle vite umane in tempi di pandemia combaciare con l’esposizione di persone sopravvissute ai viaggi in mare al rischio sanitario e alla morte, in nome della tutela della “sanità pubblica”?

Siamo una specie che sta sparendo”, ha detto N., un migrante trattenuto in quarantena a Pian del Lago da circa un mese, tra compagni che hanno tentato il suicidio vivendo in situazioni di profonda sofferenza. Una “specie” – o meglio, un gruppo sociale – che vive condizioni di oppressione e di violenza reiterate, in un sistema di gestione biopolitica dei corpi che dura durante tutto il percorso migratorio: dalle violenze subite nei Paesi terzi all’abbandono in mare a causa del blocco delle navi umanitarie, ai naufragi che continuano senza sosta nel Mediterraneo fino all’esposizione a sofferenza e morte nei centri quarantena.

In tempi di pandemia è ancora più palese come la governance biopolitica equivalga al potere di definire chi conta e chi non conta, chi ha una vita sacrificabile e chi sacra: così il principio di tutela della vita umana non è applicata alle vite dei migranti – invisibilizzati, naufragati o dis-integrati – che continuano a sopravvivere in zone grigie sospese.

La violenza nei centri contro i migranti e la morte di persone come Bilal, Abou, Abdallah, Anwar – prodotta da queste politiche – sono intollerabili.

Continuiamo a esigere il rispetto dei diritti – quello alla salute, alla protezione legale, alla possibilità di richiedere asilo. A chiedere che si metta fine ai rimpatri sistematici e all’utilizzo delle navi e dei centri quarantena come hotspot dove “selezionare” i migranti. A pretendere la verifica della legittimità dei provvedimenti restrittivi a carico delle persone collocate sulle navi e nei centri quarantena – adulti, minori, MSNA.

A fare pressioni affinché, in terra e in mare, non prevalga la logica di gerarchia delle vite, bensì la cura incondizionata di tutti.

Perché la vita dei migranti conta.

 

Silvia Di Meo

Borderline Sicilia