In tempo di pandemia, anche i diritti umani vanno in quarantena

La pandemia ha avuto l’effetto distorcente di concentrare l’attenzione degli italiani sugli slogan del restare a casa, sugli sbandieramenti quotidiani del tricolore e sui canti nei balconi di turno, facendo dimenticare tutto il resto: finalmente un Paese unito nella sofferenza.

Difficile ricordare come la quarantena passata in casa sia un privilegio di chi, appunto, una casa ce l’ha e che “andrà tutto bene” solo per i pochi il cui unico problema è il confinamento domestico.

In effetti, che non siamo sulla stessa barca, ce lo siamo improvvisamente ricordati nel momento in cui – quello che di solito è il problema numero uno degli italiani –  è ritornato, da un passato lontano.

Il  ritorno della bella stagione ha fatto ritornare in auge la questione migrazione, con  gli sbarchi avvenuti nelle ultime settimane, ed il solito livello di polarizzazione dovuto alla disinformazione che regna sovrana all’interno dell’opinione pubblica italiana.

Nell’ultima settimana, circa mille persone hanno tentato di fuggire dalla Libia in cui imperversa la guerra. Da quanto rileva Alarm Phone, la metà di queste persone sono state

intercettate dalla cosiddetta guardia costiera libica e di fatto riportate nell’inferno da cui cercavano di scappare.

Malta, seguendo l’esempio dell’Italia, si è dichiarata porto non sicuro, ed ha fatto di tutto per evitare che queste piccole imbarcazioni potessero raggiungere la costa. I maltesi – dopo aver lasciato per sei giorni una barca in difficoltà, dichiarando di non sapere dove fosse – sono stati accusati da Alarm Phone di sabotaggio dell’imbarcazione, portando come prova una registrazione giunta dalla nave stessa.

Le autorità maltesi avrebbero poi segnalato l’imbarcazione alla Libia, la quale avrebbe recuperato la nave in acque internazionali. Di fatto, si tratterebbe di un respingimento illegittimo verso un paese non sicuro e in guerra.

Tutto ciò non può bastare a fermare la fuga dalla Libia ed i conseguenti arrivi sulle coste italiane, esattamente come inutili erano i proclami di salviniana memoria dei cosiddetti porti chiusi. Diverse imbarcazioni autonome hanno raggiunto la costa lampedusana, i cui migranti a bordo sono stati trasferiti a Porto Empedocle, da dove, dopo aver aspettato per giorni in una tensostruttura al porto, sono stati trasferiti a Villa Sikania. La struttura – chiusa ma riaperta per l’emergenza – è gestita dalla cooperativa Cometa, ed era già stata segnalata per la grave carenza di servizi e per la violazione di diritti fondamentali.

Altri sarebbero stati trasferiti a Comiso, nella struttura“San Pietro”, già utilizzata durante “l’emergenza sbarchi” sei anni fa come succursale non regolamentata dell’hotspot di Pozzallo.

Nel frattempo, all’hotspot di Pozzallo, dopo un repentino trasferimento dei migranti presenti all’interno del centro, sono state trasferite altre cento persone, tra cui un giovanissimo ragazzo che sembrerebbe essere positivo al Covid-19.

Ci si chiede come potrà l’hotspot – dove non c’è mai stato lo spazio necessario per distanziare le persone – essere utilizzato per la quarantena. Con stanzoni divisi per genere, in cui i letti vengono posti uno accanto all’altro, in base al numero di persone presenti. Già in tempi “normali” questi luoghi non possono essere considerati salubri, soprattutto per le persone che hanno affrontato i lager libici e l’incertezza del mare. A maggior ragione adesso, con una pandemia in corso.

La soluzione prevista, ed approntata per i migranti soccorsi dalla Alan Kurdi il 6 aprile, è quella di utilizzare delle navi per far trascorrere la quarantena. Oggi si è proceduto al carico dei viveri ed al trasbordo dei migranti su un traghetto della Tirrenia che resterà in rada di fronte Palermo per il periodo di isolamento.

Come se non si sapesse che le navi sono uno dei luoghi peggiori per contenere  il contagio, come se l’esempio della nave da crociera Diamond Princess, in cui i contagi si sono moltiplicati giorno dopo giorno, non fosse già una dimostrazione di come questo tentativo si possa trasformare in un inferno. Ma in fondo, ciò che conta per le amministrazioni locali e nazionali non è la salute di queste persone, ma il tornaconto elettorale.

Viene anche considerata un’idea innovativa, quando già nel 2011, la regione siciliana aveva tentato di recludere le persone all’interno di piattaforme marine, i cosiddetti CIE galleggianti, vere e proprie navi-prigione attraccate ai porti siciliani, in attesa di respingere i migranti i verso altri porti non sicuri.

Non è forse molto diverso dalla strategia della tensione adottata contro le ONG che effettuano salvataggi in mare, che da circa un anno e mezzo aspettano più di dieci giorni prima che vengano assegnati loro porti in cui attraccare. Non è diverso da quanto è in corso con la Alan Kurdi, da più di dieci giorni in attesa in mare con circa 140 persone a bordo.

Tutto questo ricorda quando nel 1400 si rinchiudevano coloro i quali venivano definiti folli in navi lasciate a vagare nei fiumi e nei mari europei. Evitare che questa gente possa infiltrarsi all’interno della nostra società, che faccia dilagare la follia, o in questo caso, che si mischino le etnie, è l’unica vera malattia di cui questa Europa è affetta.

Da una parte del Mediterraneo: la guerra, la tortura e la segregazione, dall’altra l’esclusione e lo sfruttamento. Alle persone in fuga non rimane che il mare come via di fuga, di confinamento, e per molti, di morte. Nell’attesa che venga debellata l’unica vera malattia diffusa pandemicamente in Europa: la xenofobia.

 

Giuseppe Platania

Borderline Sicilia