IL TEMPO E LO SPAZIO CHE NON AIUTANO A RICOSTRUIRE. VISITA AL CAS DI CHIARAMONTE GULFI

Ci sono numerosi cartelli che indicano la strada per raggiungere “Le Mole”, ex agriturismo e ora centro di accoglienza straordinario, situato nella contrada Pian dell’Acqua del comune di Chiaramonte Gulfi e gestito dalla Coop. “La Sorgente”. Il posto, immerso tra le campagne e distese di ulivi, è però facilmente raggiungibile solo da chi è dotato di un mezzo proprio, possibilmente auto o motorino. Una lunga camminata separa infatti la struttura dalla fermata del bus più vicina, e certo le strade isolate e sterrate che lo circondano, non sono agevoli da percorrere in bici o a piedi.

Arrivo al centro in tarda mattinata, e una volta oltrepassato il cancello, mi trovo in enorme giardino, con alberi da frutto, fiori, tavoli e arredamenti propri di un agriturismo ancora ben mantenuto. Raggiungo un gruppetto di tre ragazzi seduti sotto un pergolato e mi presento. Le loro prime reazioni sono di incredulità e stupore; mi dicono che sono una delle pochissime persone esterne che vedono da mesi “qui non viene mai nessuno a trovarci” fatta eccezione per gli operatori, che sono nell’edificio principale. I ragazzi mi illustrano innanzitutto la situazione attuale del centro: da una media di 20 ragazzi, attualmente alloggiano alle “Mole” solo 9 persone, tutti uomini adulti originari del Gambia, per via degli spostamenti. La maggior parte è qui davvero da parecchio tempo: 9 mesi, 5 mesi, 3 mesi, e un ragazzo, già titolare di permesso per motivi umanitari, addirittura da un anno! Dopo le prime domande su come vedo il centro, i ragazzi non aspettano molto a confidarmi tutte le loro perplessità e insofferenze, confermate anche dall’operatore che passa a salutarci. Innanzitutto, la sensazione di impotenza e frustrazione data dalla lunghissima attesa dei documenti: anche chi ha avuto l’intervista presso la Commissione ben sei mesi fa, attende ancora oggi l’arrivo della risposta e dei permessi di soggiorno. Parlando al telefono con la responsabile del centro, sig.ra Ventura, avevo già avuto modo di conoscere la questione stamattina: “Noi operatori stiamo facendo il possibile, sollecitando in continuazione chi di dovere, e capiamo la loro esasperazione” mi ha detto Vera. “Non capisco cosa stanno facendo” esordisce E., sbarcato a Pozzallo in gennaio, “in fondo per loro è solo un timbro e un foglio da compilare. Per me significa capire come e dove posso continuare a vivere”. L’argomento desta l’attenzione di tutti i presenti: “Io ho appuntamento fra pochi giorni in Commissione, ma non ho idea di cosa mi aspetta”, si aggiunge L. Parliamo un po’ dell’intervista, di come è strutturata e di quali decisioni potrà prendere la Commissione, e L. mi racconta, condividendo con me la sua bottiglia d’acqua, della sua vita in Gambia prima della fuga e soprattutto di ciò che la costretto a scappare. Storie di violenza, prigionia e paura, che sembrano surreali dette all’ombra di alberi meravigliosi ma che, proprio la lunga e forzata attesa senza poter fare alcunché, riemergono quasi ossessivamente ogni giorno dalla memoria. “E’ dura senza poter fare niente, sai” è infatti l’altra questione che si pone prepotentemente nel nostro colloquio. Ogni ragazzo me lo ripete non appena ci presentiamo. “Qui il posto è molto bello ma noi mangiamo, dormiamo e basta. Per far passare il tempo abbiamo il cellulare e le sigarette”. Parliamo in inglese, inframmezzato da pochissime parole di italiano “non abbiamo mai fatto un corso, e soprattutto non abbiamo nessuno con cui parlare l’italiano!”, precisa A.” in questi mesi sono riuscito ad andare solo due volte a Ragusa, facendomi accompagnare dagli operatori alla fermata dell’autobus”, continua. “non riesco e non voglio pensare di dover rimanere ancora tutto questo tempo senza poter conoscere nuova gente e muovermi liberamente in una città. Ho 25 anni, sono scappato due anni fa dal mio paese e dopo aver attraversato Senegal, Mali, Burkina, Libia e aver perso due miei amici in mare, non voglio credere che anche qui dovrò ancora soffrire così per avere un lavoro, una famiglia e un pezzo di carta in mano”. L. mi fa visitare la struttura, le camere, un secondo giardino e mi indica un punto lontano nella tenuta dove c’era una piscina, “Ogni mattina mi alleno correndo fino alla fine del campo e ritornando qui per dieci volte. In Gambia ero un calciatore professionista e qui non so cosa pagherei per poter giocare ancora. Ma finchè rimango nascosto in questo posto, senza contatti o documenti, posso solo sognare”. Ritorno a chiacchierare per altre due orette con i ragazzi seduti sotto il pergolato; mi fanno molte domande sulla vita in Italia, sulle città vicine, sul lavoro e senza accorgerci ci troviamo all’ora di pranzo. Ci raggiungono due ragazzi provenienti dalla campagna: oggi hanno lavorato per tre ore, come capita ogni tanto, e sono molto soddisfatti “Non fare nulla è come impazzire” ribadiscono. E. porta delle mele, la voglia di parlare è così forte che “il pasto oggi può aspettare”, mi dice. “Ogni tanto arrivano qui dei turisti che credono di trovare ancora il ristorante che c’era qualche tempo fa, e ci dicono che siamo proprio fortunati a stare qui. E’ vero, il posto è ben curato, ma per noi diventa ancora più difficile far capire quanto soffriamo per la solitudine e l’immobilità della nostra situazione, che non scompare ma a volte si moltiplica qui”. Una staticità e un isolamento che si traduce in violenza strutturale e disperazione, per chi deve necessariamente costruirsi una nuova vita.
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus