Porto M, come mare, memoria, migrazioni, militarizzazione, mobilitazioni e….

Lo scorso 1 Febbraio a Lampedusa, e’ stato inaugurato “Porto M”, uno spazio di memoria delle migrazioni. Lo spazio di Porto M è stato allestito dal collettivo Askavusa e da diversi volontari per dare un luogo agli oggetti dei migranti passati per Lampedusa, oggetti che sono stati raccolti dai componenti di Askavusa, a partire dal 2009. La poetica dell’esposizione degli oggetti e’ quello della memoria viva, in continuo divenire. Come spiegano i ragazzi di Askavusa, nello spazio di Porto M si è voluto dare a questi oggetti un luogo in cui possano, con la loro stessa presenza, testimoniare direttamente la vita di coloro ai quali sono appartenuti.
Gli stessi oggetti raccolti in teche con delle didascalia esplicative, sarebbero stati cristallizzati nel tempo e nello spazio e il loro significato sarebbe stato capovolto. Quello che si vuole fare con questa esposizione libera di oggetti è fare arrivare direttamente la vita, anziché spiegarla.Porto M, il cui nome vuole rimandare alla parole “mare”, “migrazione”, “mutamenti”, “militarizzazione” e a numerose altre parole che iniziano con la lettera “M” legate alla realtà della migrazione, e’ raccolto in una sala che ospita diversi spazi. Sulla parete principale il blu e l’azzurro di Jeans e magliette arricciate rappresentano il mare attorno alle sagome dei cinque continenti rivestiti di indumenti di donna e bambino. Vi è poi un angolo in cui sono esposti diversi oggetti di vita quotidiana in mare e in terra e una piccola saletta per le proiezioni video.Porto M vuole porsi come un luogo di memoria, riflessione e dibattito, un laboratorio politico e culturale.Giovanna VaccaroRedazione Bordeline Sicilia

Il collettivo Askavusa e Porto M:

Sugli
oggetti

Gli
oggetti, tutti gli oggetti, trattengono e rilasciano energia. Tutta la materia è energia, vibrazione,

movimento
ed è modificata dall’energia che la trapassa,la de-genera, che la modifica in
eterno, dall’interno e dall’esterno. Noi stessi siamo parte di questo movimento
eterno.Come relazionarsi con gli oggetti, quindi? In infinite maniere,
ovviamente.Ma un mistico, un’artista, un filosofo, non devono forse cercare
negli oggetti qualcosa che vada oltre la loro forma, la loro funzione, la loro
solidità, anche se da questa ognuno è costretto a partire? E forse, il punto di
arrivo non è nuovamente una forma, una funzione, una solidità? Gli oggetti si ricreano,
sia a livello energetico che culturale, ogni volta che qualcuno si pone davanti
a loro come spettatore, come studioso, come manipolatore. Tutto è in perenne
trasformazione, sempre, quindi anche gli oggetti, nonostante tutti gli sforzi
che facciamo per archiviarli, “fissarli” con i restauri, con le protezioni,

dando
loro dei valori. Descrivendoli, quindi, gli oggetti assumeranno altri valori e
più si descriveranno più perderanno energia, valore intrinseco. Più il concetto
si stacca dalla forma, dalla funzione, dalla materia,dall’energia e più diventa
altro dall’oggetto.

Crediamo,
quindi, che sia importante non avere aspettative, ne da chi guarda, ne tanto
meno dall’oggetto. Allora perché mostrarli, chiederà qualcuno, perché salvarli,
custodirli e pulirli? Proprio perché crediamo che questi oggetti vadano
mostrati, non studiati, non catalogati, non restaurati, non “rinchiusi”, ma
mostrati, senza aggiungere altro. Farlo senza alcuna informazione didascalica
non è un atto neutrale, ma una scelta politica. Non è ricerca di oggettività,
perché l’oggetto è fatto per buona parte da chi osserva. Vogliamo rovesciare la
volontà, farla tacere, cosi come l’illusione di una causalità.

Scegliere
significa includere ed escludere. La scelta di salvare questi oggetti e
conservarli è un modo di considerarli vivi di per sé. Rappresentare è simulare.
Una giungla di segni è l’universo. Un fraintendersi su tutto. Si sceglie anche
la rinuncia. Cosa possono questi oggetti, adesso? Chi ri-definisce l’oggetto lo
ri-costituisce, chi lo ha salvato lo ha già posto su un livello nuovo: da
spazzatura è divenuto simbolo stratificato. Lo stesso avviene con i corpi dei
migranti. Li si rappresenta sempre, specialmente da un punto di vista
mediatico. Ma in realtà non ci sono

“Migranti”,
“Clandestini”, “Turchi”, queste categorie vengono create per comodità politica
e di linguaggio, lo stesso linguaggio che ci dà l’illusione di scegliere e
definire, ma in realtà ci sceglie sempre.Il linguaggio è come una strettoia da
dove non si può uscire mai, neanche con l’errore più grande. Si resta intrappolati
in una gabbia dove si può dire solo quello che è dicibile. Prima si creano i
migranti in senso fisiologico: hanno fame, sete, freddo, come animali in fuga
da un mondo altro. Poi negli altri sensi: politico, culturale, mediatico, in
quanto corpi che non dicono, muti, senza la possibilità di rivendicare secoli
di colonialismo e imperialismo che ognuno di loro porta consapevolmente e
inconsapevolmente dentro i polmoni, la testa, nelle gambe, sulle spalle. Le
storie dei singoli vengono soffocate dalla cronaca dei numeri, dalla rappresentazione
di stato e questo essere corpi tutti uguali, con gli stessi bisogni, fa
diventare chiunque arrivi a Lampedusa animale/merce. Non c’è spazio per
l’individuo nella rappresentazione, anche perché complicherebbe tutto. Ogni
individuo a prescindere se in viaggio o meno, se fermo o in movimento, è irrappresentabile,
se non con la menzogna o come processo di continuo mutare. Non si rappresentano
gli individui, se non come eccezioni. Dai loro oggettisi pretende invece una
voce, si pretende che parlino, o meglio che vengano parlati, che siano i mezzi
della propria voce, del proprio pensiero, del proprio metodo, della propria
cultura. Con questo processo si vorrebbe confezionare l’oggetto, dargli non
solo una voce, ma anche un messaggio. L’oggetto invece parla muto, dice
messaggi intraducibili, anche qui continui fraintendimenti. Anche qui continue
scelte. Anche qui qualcosa manca sempre. Queste trappole sono ovunque, pronte a
scattare al minimo passo falso. Non vogliamo dire con questo che studiare gli
oggetti, identificarli e rinominarli sia sbagliato. Non sappiamo cosa è giusto
e sbagliato. Non sappiamo cosa debbano fare gli altri. Sappiamo qual é il
percorso che vogliamo fare con questi oggetti (che non è mai definitivo).

Ognuno
ha le proprie motivazioni, argomentazioni e tesi da portare avanti.

Noi
stiamo semplicemente cercando la strada che ci ha portato in quella discarica.

Collettivo Askavusa