Visita a due Cas della Fondazione Buon Samaritano a Vittoria

Dopo circa un anno, torniamo al Cas
situato nei locali di quella che era la Comunità Incontro “Gerico”, a Vittoria
(RG). Durante l’ultima visita, avvenuta d’accordo con Padre Beniamino, responsabile
della fondazione, avevo passato un pomeriggio a parlare con i ragazzi del
centro e l’addetto cuoco mi aveva mostrato la struttura, che ora trovo in fase
di ampliamento. Oggi, dopo aver concordato l’incontro con il coordinatore,
vengo accolta da lui e da un’operatrice che mi sottolinea subito come i
migranti presenti “siano davvero un bel gruppo” e iniziano a descrivermi
dettagliatamente la situazione attuale.

Per convenzione con la Prefettura, in
questo Cas è possibile ospitare fino a 49 uomini adulti, ma ad oggi i migranti
presenti sono 35, provenienti da diversi paesi tra cui Nigeria, Gambia,
Senegal, Pakistan e India. Gli ultimi sono arrivati circa un mese fa e stanno
ora completando le procedure di identificazione con il rilascio delle impronte digitali
presso la Questura, mentre alcuni sono al centro già da diverso tempo, infatti
la durata media della permanenza è di ben 6/8 mesi.

Parlando iniziamo a visitare il
centro, situato a qualche chilometro di distanza dalla città, che i migranti
solitamente raggiungono a piedi o in bici. Un viale alberato separa i due
blocchi principali della struttura, mentre tutt’intorno si estendono
appezzamenti a tratti coltivati, un pollaio, un giardino molto ben curato e un
campetto da calcio. Attualmente è in fase di costruzione un altro caseggiato
che una volta completato potrà forse ospitare altri profughi, come mi dice il coordinatore, mentre è stato completamente messo a nuovo un grande salone
usato per feste ed eventi particolari, in cui vengo fatta subito entrare. I
migranti alloggiano in stanze da 3/4 persone e hanno a disposizione un altro
spazio comune dove solitamente si consumano anche i pasti, portati da un
catering esterno. Percepiscono un pocket money di 2.5 euro al giorno erogato
ogni settimana. “In tutto questo tempo abbiamo cercato di organizzare il
maggior numero di attività possibili” spiega il coordinatore, “sapendo che l’attesa è un
momento molto delicato per chi arriva qui. In passato si è pensato pure di fare
insieme ai ragazzi un orto, ma dopo l’entusiasmo iniziale molti hanno capito
che volevamo farli lavorare e non costruire qualcosa insieme, e quindi la
pretesa era di essere pagati o mollare tutto, come è successo.” Sin dall’inizio
si comprende la fatica di gestire un centro così grande e di interfacciarsi con
i migranti in modo diretto e sereno, all’interno di un sistema che dovrebbe
accogliere ma pone grandi ostacoli per farlo ai diversi attori in gioco.
La
Fondazione ha 15 operatori che si dividono
sulle tre strutture attive nell’accoglienza dei migranti, tutte situate a
Vittoria: i due Cas “Gerico” e “Libeccio” e il centro aperto presso la
parrocchia che ospita famiglie e donne. I mediatori linguistico/culturali e gli
avvocati sono chiamati a seconda della necessità, mentre il team di Msf è presente
sui due Cas con un progetto di sostegno psicologico. Per tutti i migranti, dopo
aver avuto l’attestato nominativo, viene richiesta la tessera sanitaria. “Lavorare
con piccoli numeri è certamente meglio” continua il coordinatore, “anche perché le pratiche
burocratiche comportano un notevole dispendio di tempo e la grande fatica di
interfacciarsi con le istituzioni pubbliche, per le quali spesso lavorare per i
profughi sembra fare un di più, e non semplicemente fornire un servizio dovuto.
A volte mi è capitato di portare a fare il codice fiscale un gruppo di 5
ragazzi, e l’impiegato addetto per tutto il tempo si arrogava il diritto di
farne solo quattro per volta, perché erano troppi…Altra impresa è stata far
avere ai migranti il codice STP, in attesa dell’attestato nominativo per fare
la tessera sanitaria, come ci aveva suggerito Msf: per convincere il medico che
pure i richiedenti protezione internazionale ne avevano diritto, è stato
necessario interpellare i responsabili e chiedere anche la mediazione di Msf
appunto”. Resistenze quotidiane che incidono non poco sulla vita dei profughi
in attesa ed evidenziano tutta l’inadeguatezza di un sistema in cui
l’investimento nella formazione rimane comunque ancora pari a zero. Il coordinatore mi
parla anche della pressione che sta facendo in Comune per poter fare avere la
carta d’identità a diversi ragazzi, che la chiedono continuamente. “Probabilmente
l’insistenza per averla è dovuta alle richieste fatte dai cosiddetti datori di
lavoro delle serre vicine, che non hanno nessuna idea di quale sia la
situazione dei ragazzi e comunque non li assumeranno mai.” Che la maggior parte
dei migranti del Cas lavori con frequenza più o meno variabile in nero nelle
serre è un fatto più che assodato; lo dimostra la presenza di pochi ragazzi al
centro in queste ore centrali della giornata ma soprattutto il via e vai di
bici e di auto degli stessi caporali, che li vengono a prendere e
riaccompagnano in auto davanti alla struttura. Si parla di come potrebbe cambiare la situazione in presenza di un
coordinamento attivo con altre realtà, come i centri per l’impiego e sportelli
lavoro presenti sul territorio, ma alla fine sembra che la mancanza di risorse
sia incolmabile. “Noi cerchiamo di creare le condizioni migliori per i ragazzi
ospitando anche gli scout e proponendo attività, ma spesso
inevitabilmente si creano dei gruppi, in base all’etnia o alla lingua o alla data di arrivo e
purtroppo capita pure che chi è qui da molto inizia a scoraggiarsi, a non seguire
più nemmeno il corso di italiano e soprattutto a trasmettere questa disillusione
anche ai nuovi arrivati. E’ davvero molto difficile”.
Il corso di
alfabetizzazione e italiano viene tenuto ogni giorno dall’operatrice che ho già
conosciuto, ed ora è frequentato principalmente dai ragazzi del Bangladesh e da
un indiano con cui ho modo di scambiare un po’ di parole. L’operatrice gli ricorda la festa in programma
per questo fine settimana e per la quale
chiede se abbiano suggerimenti e proposte e l’ospite del Bangladesh inizia a parlare della musica,
del cibo e delle cose che gli mancano qui in Italia. “Per esempio a me non
piace il calcio, gioco a cricket e qui ho già recuperato il necessario per fare
delle mazze e mettere in piedi una squadra con gli altri ragazzi del
Bangladesh. Vado d’accordo anche con gli altri che ci sono qui, ma spesso i
ragazzi africani fanno troppo rumore, per esempio la sera con la musica oppure
in camera. Ultimamente dormo in veranda perché i miei compagni di stanza
cucinano all’interno e non ci si può stare”. Questo ragazzo parla già qualche parola di
italiano e sta cercando di conoscere un po’ pure il territorio vicino. Lo
incontro in sella alla sua bicicletta mentre esce due giorni dopo, quando
ritorno a “Gerico” per andare poi in visita al Cas “Libeccio”.
In
quest’occasione ho modo di conoscere un altro operatore della Fondazione, che
mi segnala come negli ultimi tempi siano in aumento i migranti inviati poco
dopo lo sbarco e segnalati dalla Prefettura come “collaboratori di giustizia”.
“Gli ultimi 9 ragazzi arrivati sono stati inviati con questo nulla osta come
collaboratori di giustizia da parte della Prefettura” mi spiega “e purtroppo
poi il tempo passa e non si sa ancora nulla della loro situazione. Soprattutto
questo non è il posto dove dovrebbero stare, e a quanto pare tutti gli altri
centri preposti sono pieni”. Una prassi questa che sembra sempre più diffusa e
preoccupa per la qualità della tutela riservata ai profughi in questa
situazione, quando si spengono i riflettori sugli sbarchi e il numero dei
presunti scafisti arrestati rimane a campeggiare a pieno titolo sui giornali.

Da “Gerico” mi sposto al Cas
“Libeccio” situato a pochi metri di distanza, in appartamenti che si sviluppano
su due piani all’interno di uno stabile in ristrutturazione. Ad accompagnarmi,
oltre al coordinatore, trovo un’altra operatrice del centro. Al Libeccio sono
presenti attualmente 20 migranti, principalmente originari dell’Africa subsahariana e
del Bangladesh. L’operatrice parla inglese e francese e tiene quotidianamente corsi
di italiano, ma si attiva pure per cercare altre attività sul territorio.
“Alcuni mesi fa, con l’aiuto di volontari, abbiamo girato con i ragazzi per
conoscere la città e i luoghi di pubblica utilità come le poste e i negozi, ma
non solo. Siamo riusciti pure ad assistere a delle prove a teatro ed è stato
davvero bello”. Anche qui, come a Gerico, negli ultimi giorni ci sono stati
diversi trasferimenti, e la discussione cade sull’episodio recentemente
riportato dai giornali, secondo cui 12 ragazzi di questi due Cas avrebbero
tenuto sotto sequestro gli operatori, reclamando il pocket money.“Purtroppo quello che riportano i
giornali è spesso distorto” dice il coordinatore. “Si può iniziare a spiegare la vicenda
partendo dagli inizi di luglio, quando un bus è arrivato per trasferire 43
migranti, di cui 7 alloggiati al Libeccio e i restanti a Gerico, in diversi
Sprar, situati principalmente nell’agrigentino. I ragazzi, avendo avuto da
alcuni amici notizie di una pessima accoglienza nei centri di destinazione, si
sono rifiutati di partire, tutti tranne 5. Purtroppo la realtà è che a volte i
migranti sono davvero trattati come numeri: la comunicazione del loro
trasferimento non ci era arrivata molto prima, alcuni erano già qui da diversi
mesi e in procinto di andare in Commissione o con un ricorso avviato. Il buon
senso direbbe che gli spostamenti andrebbero fatti considerando anche le
singole situazioni dei ragazzi ma questo non è stato il caso.” A detta sempre
del coordinatore, dopo la partenza del bus semivuoto e la rapida creazione di
“barricate” con legni e pietre da parte dei ragazzi, tolte prima dell’arrivo
della Polizia, è ripreso il lavoro di persuasione al trasferimento da parte
degli operatori perché i ragazzi erano ormai stati destinati altrove. Dopo
alcune partenze alla spicciolata, ecco che un gruppetto di 12 persone, si
chiude nell’ufficio di Gerico con due operatori intimando di annullare il
trasferimento: “Il primo pretesto è stato la richiesta del pocket money, che
stavamo dando con due giorni di ritardo, ma il vero motivo era la richiesta di
rimanere. I migranti ci hanno detto che non saremmo usciti di lì se non
cambiavamo la situazione e ci hanno loro chiesto di chiamare la polizia per
farsi aiutare. Polizia che ovviamente una volta arrivata ha denunciato i
migranti su cui ora pesa un nuovo ostacolo sulla via dell’ottenimento dei documenti.”
Ora tutti i profughi coinvolti sono stati allontanati dal centro, per cui non
ci è dato di conoscere le loro opinioni, ciò che resta certo è quantomeno
l’ipocrisia di un sistema che sembra provvedere a tutto tranne che ad
un’accoglienza dignitosa in ogni sua fase.
“Dalle condizioni di totale
inadeguatezza di alcuni centri, che portano i migranti a ritornare da noi dopo
il trasferimento creandoci serie difficoltà, alle decisioni prese a tavolino
che dimostrano di non conoscere la realtà e i problemi quotidiani dei centri,
sarebbero molte le cose da elencare per far comprendere come il nostro lavoro
non si possa giudicare in modo frettoloso” conclude il coordinatore prima di salutarci.
Rimango a parlare con alcuni ragazzi che siedono fuori dalla casa; tra di loro uno del Gambia, qui da circa 5 mesi e già in grado di capire benissimo
l’italiano: “Nel mio paese ho studiato e qui ho trovato una buona insegnante. A
volte molti si rivolgono a me per la traduzione, e io lo faccio volentieri. La
cosa che mi interessa di più rimane però il
business e management. Ho solo il cellulare ma riesco a restare
informato e l’ideale sarebbe trovare qualche libro.” Gli suggerisco di prendere
contatti con le biblioteche e andare in città: “Sì, è vero ma quando vado a
Vittoria è difficile conoscere qualcuno, la gente mi guarda appena e dovrei
andarci con qualcuno italiano, altrimenti sono invisibile. Il problema qui è il
tempo: continuare ad aspettare aspettare ed aspettare rende troppo nervosi” Il gambiano sceglie bene le parole da dirmi e non le ripete a caso, anche se da come
gesticola si capisce quanta agitazione può avere. “Anche il cibo non è gran chè:
c’è pasta, riso, ma non cibo africano. Io ho parlato con gli operatori e mi
dicono che appena possibile ci faranno cucinare qualche volta, però intanto va
così. E io aspetto, sono nervoso, cerco di imparare l’italiano e per ora ho
solo due o tre amici” proprio uno di questi lo raggiunge, mentre gli altri
tornano in bici e salgono nelle stanze o in veranda ad aspettare il pranzo.
Alcuni ragazzi chiedono all’operatrice informazioni per avere la carta d’identità e
il pensiero ritorna alla quotidianità a dir poco desolante e inaccettabile di
chi in Italia dovrebbe trovare tutela e protezione da parte di un sistema di
accoglienza, dimostratosi finora più attento agli interessi di pochi che al
benessere dei migranti. I quali certamente sono quelli costretti a pagare di più,
l’ultimo anello della catena.

Lucia Borghi

Borderline Sicilia Onlus