Visita al Serraino Vulpitta, la madre dei Cie

di
Alessio Genovese

Il
campetto di calcio ricavato nell’ex parcheggio del centro è deserto.
I quarantuno “ospiti” sono nei tre reparti al secondo piano che
aspettano la nostra visita, oggi nessuno di loro potrà giocare a
pallone. Tutto deve essere il più sotto controllo possibile, almeno
per oggi. Almeno durante la visita dell’on. Alessandra Siragusa del
Pd. Al primo piano ci aspettano il vice prefetto e un uomo della
questura di Trapani con la direttrice del C.i.e.

Le prime due stanze
del corridoio num. 14 sono vuote ma generalmente dietro il ferro
finiscono in isolamento gli ospiti più caldi o gli immigrati
provenienti dagli altri C.i.e. d’Italia in attesa di essere
rimpatriati. Il C.i.e. Serraino Vulpitta di Trapani negli ultimi
mesi è infatti diventato un collettore per il transito di centinaia
di tunisini irregolari in attesa di essere imbarcati sui voli da
Palermo per Tunisi.

Secondo
il medico di servizio all’interno del centro, per conto dell’ente
gestore Cooperativa
Insieme
,
la situazione è sotto controllo. I ragazzi che hanno bisogno di
particolari visite o cure vengono mandati all’ospedale di Trapani per
poi essere riportati all’interno del centro. “Ci sono stati dei
casi di TBC e di HIV in passato ma al momento non c’è niente di
grave”, riferisce il dottore. Ma a ben guardare le cartelle
cliniche degli ospiti per le emergenze scopriamo che solo nei primi
nove giorni di maggio sono stati tredici gli interventi d’urgenza.
“Si tratta sempre degli stessi due ragazzi, Reda e Muhammad, ogni
giorno, ogni giorno si fanno portare in ospedale” dice il
responsabile della questura.

Reda
è un ragazzino di diciannove anni originario del Marocco ma
cresciuto a Palermo dove viveva con la madre. Nell’ultimo mese ha
tentato per due volte il suicidio. Non riesce ad accettare di stare
lontano dalla madre bisognosa di cure e sola. Meno di un mese fa è
stato trovato con al collo una corda ricavata dalle lenzuola, appeso
ad una trave nel bagno. “Erano le quattro del mattino quando lo
abbiamo trovato” ci dice Wilson, un ragazzo albanese da due mesi al
S. Vulpitta, “è vivo per miracolo, aveva già perso i sensi”.
Wilson è un fiume in piena. Parla un italiano perfetto imparato in
cinque lunghi anni di carcere, gli è stato dato il massimo della
pena per spaccio. Oggi che l’ha scontata è rinchiuso da due mesi e
mezzo nel C.i.e. di Trapani. “Ci sono notti che entro nel bagno e
mi sembra di vivere un film horror. Il sangue è dappertutto, qui ci
sono ragazzi che si tagliano e mangiano vetro e ferro”, continua,
“questi cercano di farvi crede che tutto va liscio ma non è
affatto così. Reda è stato imbottito di Rivotril, un ansiolitico,
guardategli gli occhi. Sono spenti. Un ragazzo di diciannove anni con
gli occhi spenti”. Wilson l’ha detto il primo giorno che è
arrivato al C.i.e.: “voglio tornare a casa, in Albania, a Valona.
Questo posto è un inferno me ne voglio andare e sono ancora qui.
Perché? Molti hanno paura di parlare con voi davanti alla polizia,
ma io no. Lo sai cosa dice il maresciallo quando succedono queste
cose?”, Wilson guarda negli occhi gli agenti che ci stanno
scortando e continua gridando, “dice che se si è impiccato una
volta lo può fare anche una seconda, se ha mangiato cento gr. di
vetro ne può mangiare anche duecento. Ci prende in giro, capisci?
Reda l’abbiamo salvato noi. Qui dentro la gente ci può morire, a
loro non gliene importa niente”.

Al
Serraino Vupitta è già successo che la situazione degenerasse oltre
ogni misura. Era la notte tra il 28 e il 29 di dicembre del 1999
quando il primo C.p.t. d’Italia prese fuoco. All’epoca della
Turco-Napolitano quelli che poi sono diventati gli attuali C.i.e. si
chiamavano Centri di permanenza temporanea (C.p.t.) e a luglio del
1998 il primo venne inaugurato proprio a Trapani. Nel rogo di quella
notte, appiccato per protesta da uno dei dodici immigrati rinchiusi
in una cella sbarrata dall’esterno, persero la vita sei persone.
Questo accadeva più di dodici anni fa, da queste celle sono passate
centinaia di uomini, queste pareti parlano tutte le lingue del mondo
attraverso le preghiere e le richieste di aiuto scritte sui muri
negli anni, ma ogni notte si corre il rischio che qualcuno qui dentro
ci lasci le penne.

Che
è sempre più difficile lavorare in queste condizioni ce lo conferma
anche la direttrice del centro. Il prolungamento del periodo di
trattenimento fino a diciotto mesi ha reso la situazione ancora più
difficile, anche per gli uomini della cooperativa, anche per le forze
dell’ordine chiamate sempre più spesso ad intervenire per sedare
tentativi di fuga e proteste. Molto spesso sono le precarie
condizioni igenico-sanitarie e la scarsa qualità del cibo ad
innescarle. In questo momento di crisi e tagli, poi, si stanno
preferendo quelle cooperative che offrono servizi ad un prezzo più
basso. La spesa diaria è scesa intorno a venti euro a “ospite”,
sicuramente non abbastanza per garantire i minimi standard. E le
conseguenze sono toccabili con mano. Durante la distribuzione dei
pasti di oggi, per esempio, l’on. Siragusa ha notato che sulle
vaschette sottovuoto distribuite mancava l’etichetta con la data di
preparazione e gli ingredienti utilizzati. “Se il camioncino che
trasporta questi alimenti senza etichetta venisse fermato per strada
dai N.a.s. di sicuro la ditta verrebbe fatta chiudere” osserva
l’onorevole.

La
visita prosegue scortati a vista dalle forze dell’ordine, che
sembrano più preoccupate a che non si facciano foto alla struttura
che ad altro. Gli “ospiti” del centro ci seguono in una specie di
trenino improvvisato. Ognuno di loro ha una storia da raccontare, dei
parenti da avvisare e delle compagne fuori che li aspettano. Storie
diverse che hanno come unico comun denominatore delle loro vite il
fatto di essere stati trovati senza documenti sul territorio
italiano. E poi sono moltissimi quelli che, come Wilson, arrivano qui
dopo avere scontato il carcere. Alla fine della pena vengono
trasferiti nel C.i.e. subendo nei fatti un ulteriore condanna,
ingiustificata e insensata. Nei centri di identificazione ed
espulsione (C.i.e.) ci dovrebbero finire le persone da identificare,
quelle sprovviste di documenti per cui è richiesta una
collaborazione con i consoli e le ambasciate dei paesi d’origine, di
sicuro non chi è già stato identificato in passato. Questo secondo
la stessa ratio che giustifica l’esistenza di questi posti, troppe
volte teatro di violenze e violazioni dei diritti fondamentali. Per
noi restano posti da chiudere il prima possibile. Il fatto che
all’interno si verifichino delle irregolarità è una conseguenza
fisiologica di come sono state concepite queste strutture. Inoltre,
non è raro trovare persone in fuga da persecuzioni e guerre
rinchiuse nei C.i.e. nonostante aver presentato richiesta d’asilo.

C’è
un gruppetto di cinque persone che resta in disparte in fondo ad una
stanza buia e mal ridotta. Sono egiziani, arrivati a Mazara del Vallo
lo scorso primo maggio su un peschereccio con altre settantaquattro
connazionali. Loro dell’Italia hanno visto praticamente solo le mura
del S. Vulpitta dove sono finiti qualche giorno dopo lo sbarco. Alla
maggior parte dei loro compagni di viaggio è toccata una fine
peggiore. Sono stati rimpatriati, messi su un aero partito da Palermo
per il Cairo alle cinque di mattina in tutto segreto. Non hanno
neanche avuto la possibilità di essere informati sul diritto che
avevano di fare richiesta d’asilo. Adel è uno dei cinque finiti al
C.i.e. e non parla che arabo egiziano. “In Egitto la situazione è
troppo pericolosa per tutti noi”, ci racconta, “io sono cristiano
copto e la mia famiglia è stata minacciata dopo essersi trovata
coinvolta in una rissa con i salafiti. Entrano nel nostro quartiere,
alla periferia del Cairo, e sparano e terrorizzano la gente.” Adel
ha una croce copta tatuata sulla mano e i segni della colluttazione
con i baltagiya,le
bande armate che seminano panico tra la gente. Il suoi quattro
compagni sono egiziani musulmani e sono d’accordo con lui “anche
noi abbiamo avuto problemi con le bande, siamo tutti scappati per
questo. In Egitto la situazione è troppo pericolosa per continuare a
viverci. Il destino delle nostre famiglie dipende da questo viaggio,
se troveremo o meno lavoro in Italia.” Loro hanno fatto richiesta
d’asilo, dicono che sia stata la prima cosa che hanno detto al loro
arrivo, ma probabilmente gli è stata notificata contestualmente al
provvedimento di espulsione. Soltanto così si riesce a giustificare
la loro presenza all’interno del C.i.e. Una procedura al limite del
lecito che li costringerà a restare rinchiusi nel gabbio chissà per
quanto tempo.

Ancora
oggi il ministro Cancellieri, in audizione presso la commissione
diritti umani del Senato, affermava che è “opportuno far presente
che l’attenzione verso le condizioni di vivibilità nelle strutture
in questione resta uno dei punti di maggiore delicatezza a cui sono
particolarmente sensibile”. Mentre questo governo sta finanziando
la costruzione di nuovi C.i.e. e l’adeguamento di quelli già
esistenti in totale continuità con le politiche dei governi
precedenti dobbiamo chiedere a gran voce la loro chiusura perché non
ci potranno essere condizioni di vivibilità dignitose in posti dove
la detenzione amministrativa può essere confermata fino a diciotto
mesi e anche i più elementari diritti vengono negati.