Visita agli SPRAR di Francofonte

A inizio ottobre ci siamo recati a visitare lo SPRAR gestito dal consorzio Sol.Co. a Francofonte, in provincia di Siracusa.

Si tratta di due centri, in coordinamento ma indipendenti, situati entrambi in una zona molto centrale della cittadina del Siracusano. La visita è stata effettuata nel periodo in cui veniva varato il decreto legge “Immigrazione e Sicurezza”, e quindi questo report rappresenta un’istantanea della situazione prima dell’entrata in vigore del decreto.

La prima struttura che visitiamo si trova a pochi metri dal centro storico della città. Ci accoglie un ampio spazio aperto dove troviamo degli ospiti a chiacchierare tranquilli, i quali ci fanno strada all’interno, indirizzandoci verso l’ufficio della coordinatrice della struttura, occupata con un signore di provenienza pakistana e una mediatrice culturale. Ci viene spiegato che questo è un caso particolare, in quanto si tratta di un padre solo con una figlia e che all’interno del centro è presente un altro nucleo monoparentale, cosa inusuale per un centro collettivo per uomini.

La coordinatrice racconta delle difficoltà ma anche delle soddisfazioni nell’avere dei minori all’interno del centro, per i quali si è cercato di fornire servizi ad hoc, come una sorta di campo estivo.

Dopo queste brevi premesse, ci spiega che i due centri accolgono 31 persone l’uno, a cui vanno aggiunte 26 persone, divise in quattro nuclei familiari facenti parte del progetto di resettlement, per un totale di 88 posti. I 62 ragazzi presenti vivono all’interno dei due centri collettivi, mentre i nuclei familiari sono collocati in alloggi indipendenti sparsi nella cittadina.

La maggior parte degli accolti è titolare di protezione umanitaria, pochissimi i casi di richiedenti asilo e circa un 15% i ricorrenti. Presente anche una persona rimandata in Italia ai sensi del Regolamento Dublino. Si tratta, al di là dei due nuclei monoparentali e delle famiglie provenienti dal resettlement, di neo-maggiorenni con un range di età che va dai 19 ai 25 anni.

Per quanto riguarda il personale, sono presenti 4 mediatori culturali che lavorano a chiamata, solo per effettuare colloqui individuali. In realtà, precedentemente, i mediatori erano presenze fisse, ma con il passare del tempo, alcuni ospiti presenti da più tempo hanno iniziato ad aiutare all’inserimento dei connazionali appena giunti.

All’interno del centro è presente una psicologa, che apparentemente si occupa solo di colloqui volti all’identificazione di competenze e abilità sulle quali basare il percorso individualizzato. Questa è una criticità in quanto si tratta di beneficiari che nella maggior parte dei casi hanno subito torture e trattamenti degradanti in Libia e perciò avrebbero bisogno di percorsi terapeutici che vanno ben oltre la mera identificazione delle competenze che viene fornita dalla psicologa del centro. Come sappiamo molti ex detenuti libici sviluppano sindromi da stress post-traumatico, che possono mostrarsi in maniere latenti e perciò necessitano di un monitoraggio costante volto alla riabilitazione.

Gli avvocati sono presenti circa una volta alla settimana e si occupano di preparare all’audizione innanzi alla commissione territoriale e dei ricorsi avverso le decisioni negative.
All’arrivo in struttura si viene accolti dalla coordinatrice e da un mediatore, con i quali si discute del contratto di accoglienza, e della possibilità di passare una notte nel centro prima di decidere se accettare il contratto o meno. Questo perché il contratto prevede diritti ma anche doveri, come le pulizie delle sale comuni con penalità per coloro i quali non rispettino i loro turni. La penalità è una decurtazione del pocket money di 1,50 euro per ogni turno non rispettato. Scelta comprensibile, dato che pone gli ospiti davanti ai loro obblighi, ma forse eccessivamente penalizzante data l’esiguità del pagamento mensile che ammonta a circa 45 euro.

L’ingresso all’interno del centro non prevede nessuno screening medico, seguendo le direttive del servizio centrale, il quale avrebbe ritenuto tale pratica una violazione della privacy. È però presente un medico che, coordinandosi con gli operatori, gestisce la somministrazione di medicinali.

La conversazione si sposta verso l’integrazione linguistico-culturale. 14 persone delle 26 aventi diritto sono iscritte al CPIA di Lentini, mentre gli altri seguono i corsi di italiano offerti in loco da un’antropologa per un totale di dieci ore settimanali; i restanti sono stati iscritti all’interno di scuole pubbliche.

Per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, si è deciso di organizzare un tavolo tecnico con le aziende della zona per sensibilizzare e creare delle partnership volte alla costruzione di tirocini formativi di circa tre mesi, con alcuni casi di contratti 6+6: sei mesi pagati dallo SPRAR e sei mesi dall’azienda, per circa 350-400 euro al mese. La coordinatrice racconta come questa tipologia di tirocini si sia dimostrata vincente per quanto riguarda la regolarizzazione lavorativa, con circa 7 persone confermate all’interno dell’azienda per la quale avevano svolto il tirocinio. Inoltre, vengono forniti corsi di professionalizzazione durante l’inverno e corsi volti al conseguimento della patente durante il periodo estivo. Importante per l’integrazione è lo sport, perciò è stato firmato un accordo con un ente pubblico e uno privato, con molti ragazzi facenti parte di squadre di calcio delle cittadine vicine.

Riguardo i tempi relativi alle procedure per il riconoscimento della protezione, ci viene riferito che apparentemente, la commissione territoriale di Siracusa è sempre riuscita in circa un mese dall’arrivo del richiedente asilo a effettuare il colloquio. Rimane il tasto dolente relativo al mancato rilascio da parte della questura di Siracusa del permesso di soggiorno per richiesta di asilo. Nonostante la velocità della commissione, che fa sì che il tempo medio di permanenza sia di sei mesi, alcune persone sono rimaste all’interno anche 4 anni, in attesa che la loro procedura di asilo venisse definita in sede giudiziaria.

Ci viene poi descritto il progetto del resettlement, che si occupa di soli rifugiati che si ritrovano a non poter restare nel primo paese di accoglienza e vengono perciò trasferiti in un paese terzo, in questo caso l’Italia. Si tratta di quote decise annualmente dal governo, una delle poche forme legali per entrare in un paese europeo. Il progetto di resettlement è però di competenza del secondo centro, il cui coordinamento, sebbene legato al primo, agisce in maniera indipendente. Perciò, ciò che è valido per il primo SPRAR non è automaticamente valido per il secondo.

Il secondo centro collettivo è situato in un palazzo storico del centro, che mostra ancora le vestigia del suo antico uso religioso, un ex-convento. Ci accoglie la coordinatrice di tale progetto, con la quale affrontiamo innanzitutto il problema dell’integrazione con la popolazione della cittadina. Per favorire l’incontro tra i francofontesi e i ragazzi accolti all’interno dei centri, sono stati organizzati diversi progetti. Il più importante, e di successo, è stato il progetto “case colorate”, con il quale si sono ripristinati alcuni dei locali dell’ex convento, con l’intento di creare un posto di aggregazione sociale volto all’interazione dei giovani originari del luogo con i giovani provenienti da altri paesi. In particolare, è stata ripristinata una delle terrazze del convento con murales, giardinetti e uno schermo su cui proiettare film.

La conversazione volge verso il progetto di resettlement. Si tratta di famiglie provenienti da Siria ed Eritrea, originariamente accolte in Turchia e Libano, e da lì, trasferite in Italia. Vivono tutte in case indipendenti, il che ha favorito l’integrazione sociale, data la creazione di rapporti di vicinato, la necessità di organizzarsi burocraticamente e l’inserimento dei bambini all’interno delle scuole pubbliche. Una volta usciti dal progetto SPRAR, sono previsti aiuti finanziari per l’affitto. Alcune famiglie, infatti, avendo avuto regolarizzazioni lavorative date dagli stage formativi, hanno deciso di continuare a risiedere a Francofonte.

La coordinatrice ci porta in giro per il centro, vediamo i locali della cucina, l’ala che funge da dormitorio, con stanze comprensive di bagno in cui sono collocate circa 4 persone, e le sale ricreative. Il centro non si presenta male e sembra che la vita scorra lieve. Ma non tutto ciò che luccica è oro, soprattutto per quanto riguarda l’accoglienza. Perciò, finita la mia visita nei due centri, andiamo alla ricerca di ex ospiti del centro. Ne troviamo un paio disposti a raccontarci della loro esperienza all’interno dello SPRAR.

Ciò che ci viene riferito differisce leggermente dalle presentazioni delle due coordinatrici. C’è da ammettere che per quanto riguarda il primo centro, la situazione sembra essere più positiva, specialmente per quanto riguarda l’inserimento lavorativo. Rimangono comunque delle criticità, a partire dalle già citate decurtazioni del pocket money, che, come sostenuto dagli ex ospiti, alle volte venivano effettuate anche se le persone erano impossibilitate a partecipare alle pulizie per altri tipi di obblighi, formativi o lavorativi. Tale riduzione del pocket money inficia, e non poco, l’economia mensile degli ospiti, costretti a passarsi i vestiti tra loro. Ci raccontano anche che il pocket money viene decurtato in maniera collettiva anche qualora qualcosa si rompa. Gli ospiti si sono ritrovati a pagare un ferro da stiro e un frigorifero di tasca loro, nonostante la responsabilità degli incidenti non sia mai stata attribuita a qualcuno.

Dai racconti emerge anche che non c’è possibilità di accedere autonomamente alla cucina, che viene aperta solo durante gli orari dei pasti e con la supervisione di cuochi professionisti, incaricati di selezionare le pietanze che verranno fornite agli ospiti. Secondo questi ex beneficiari, tale pratica lede la loro autonomia personale, in quanto, se impossibilitati a mangiare durante gli orari previsti dal centro, sono costretti a mangiare fuori con i pochi soldi che ricevono e, se presenti durante l’orario pasti, sono sempre costretti a mangiare qualcosa deciso da altri.

Il problema forse più grave è legato alla mancanza di relazioni con i francofontesi, e alla difficoltà di interagire con la burocrazia italiana, dato che nessuno li ha mai accompagnati in questura, nemmeno appena arrivati. I musulmani lamentano inoltre la difficoltà ad esercitare la propria religione: viene offerto un servizio navetta per andare alla preghiera del Venerdì a Catania, ma in maniera non costante, una volta, massimo due, al mese.

Un altro problema è la percezione degli ospiti rispetto al trattamento individuale. Ciò che ci viene detto è che esiste una differenza di trattamento che varia rispetto all’affinità degli ospiti con determinati operatori e alla loro pronta obbedienza ai turni di pulizia. Soprattutto, avvertiamo un certo risentimento verso le famiglie del resettlement, derivante dal fatto che godono di maggiore autonomia e libertà decisionale rispetto ai ragazzi del centro. Tale risentimento rispecchia purtroppo anche una differenza etnica: le famiglie del resettlement sono in prevalenza siriane e dunque dai tratti somatici più vicini alla popolazione italiana, mentre i ragazzi dei centri collettivi sono tutti di provenienza subsahariana. La maggiore criticità ci viene riferita da un ragazzo con problemi fisici, il quale si lamenta di non essere stato accompagnato all’ospedale nonostante avesse prenotato una visita. Organizzare gli spostamenti richiede sicuramente un avviso fatto in anticipo dal beneficiario, ma resta comunque il fatto che non si possa far mancare una visita specialistica ad un ragazzo con problemi di salute.

In linea generale si tratta di uno SPRAR che offre dei servizi decenti, e che presenta alcune criticità, ma sicuramente tenta di fornire un servizio, nonostante il difficile compito.

Forse il vero problema dello SPRAR, non solo di questo, ma dell’intero sistema, è la mancata riuscita del percorso verso l’autonomia del migrante, costretto, per esempio, a non poter decidere i pasti, a vivere schermato dalla società civile in dormitori affollati, senza quel minimo di privacy necessaria a tutti gli essere umani, senza trovarsi, dunque, nella condizione di cittadino attivo piuttosto che in quella di ospite, spesso non gradito, di strutture che si sono trasformate per l’occasione. Non solo, ma ci sono anche delle scelte geografiche non felici: i piccolo centri urbani possono essere un vantaggio se si creano dei progetti volti all’inclusione nel tessuto sociale, un po’ come succedeva a Riace, dove le botteghe artigianali miste e l’ospitalità diffusa avevano fatto sì che gli ospiti potessero rendersi parte integrante della società civile riacese. Ma può anche dimostrarsi uno svantaggio, quando invece si è collocati in massa in luoghi delimitati da confini di quartiere, che con il tempo divengono il raggio di azione massimo dei migranti e luoghi da evitare per i cittadini.

In questo senso, bisognerebbe riflettere, anche data la trasformazione in legge del decreto Salvini, come lo SPRAR, sistema d’accoglienza celebrato in tutta Europa, l’unico sulla carta fornito di strumenti volti all’integrazione linguistico – culturale e lavorativa dei migranti, vada migliorato e reso più funzionale seguendo anche gli esempi italiani concreti che si sono già dimostrati vincenti, con i quali si potrebbe emendare e migliorare lo SPRAR, facendo così dell’accoglienza un motore positivo per tutto il Paese. Invece no, il progetto geniale del governo è svuotarlo di tutti i richiedenti asilo e gli aventi protezione umanitaria, ossia più del 70% dei suoi beneficiari, per ingrossare invece le fila di centri malavitosi come i CAS e i CARA sparsi per il territorio agricolo siciliano, dove non viene fornito nessun progetto volto all’autonomia del migrante, e che invece si trasformano in centri di sfruttamento e di violazione dei diritti umani, uno su tutti il CARA di Mineo, come abbiamo avuto modo di denunciare nel corso degli anni.

L’intenzione del governo è chiara: continuare ad assecondare gli interessi di coloro che hanno fatto dell’accoglienza un business, e delle multinazionali che lucrano tramite la manodopera a basso costo fornita dai migranti, criminalizzando sempre più, invece, chi si spende quotidianamente e in maniera volontaria per salvare vite umane e salvaguardare i diritti inalienabili delle persone.

 

Peppe Platania

Borderline Sicilia