Centri SAI: una nuova frontiera dei “diritti a ribasso”?

Il centro SAI di San Giuseppe Jato (PA), gestito dalla cooperativa La Fenice, è situato fuori dal centro abitato, dietro un supermercato e la grande strada che porta verso Palermo.

Alla fine di una traversa ripida e sterrata, circondata da campi e sterpaglie, si fa largo una grande casa. Gli operatori del centro ci dicono che addirittura il postino si rifiuta di fare questa strada, e sarebbe per questo che uno degli ospiti aspetta ancora, dopo tanti mesi, la sua tessera sanitaria. Questa prima impressione di isolamento della struttura è di solito associabile più ad un Centro di Accoglienza Straordinaria che ad uno che fa parte del Sistema di Accoglienza e Integrazione.

I punti critici rilevati dagli ospiti

Durante la nostra visita autorizzata all’interno del centro, abbiamo parlato con alcuni ospiti che ci hanno riportato una serie di violazioni dei loro diritti sofferte in Italia ed all’interno della struttura. Alcuni ci raccontano di essere in Italia da anni (uno addirittura da sei anni), senza ancora aver avuto un permesso di soggiorno definitivo, e di essere dunque dipendenti dal sistema d’accoglienza, un sistema che appare produrre, invece di evitare, le ingiustizie ed il diniego dei diritti più basilari.

Gli ospiti ci riferiscono che sono “obbligati” a lavorare, di solito in campagna, perché “i soldi ci vogliono”, visto anche che l’ultimo versamento del pocket money è avvenuto lo scorso febbraio. Oltre il pocket money, è previsto il versamento di 24.50 euro a testa a settimana per coprire le spese relative al cibo e all’igiene personale. Questi soldi arrivano tempestivamente, ma non sono considerati sufficienti per coprire la spesa settimanale. Gli ospiti ci dicono anche che non hanno ricevuto vestiti, e che sono costretti a tenere da parte i soldi anche per quelli, come anche per le medicine. “Come dobbiamo fare?”, ci chiedono.

Ci riferiscono che è molto difficile trovare lavoro con contratto regolare. In questo contesto, le spiegazioni dell’operatore legale – che gli operatori del centro ci dicono venga ogni sabato, ma che gli ospiti dicono di non vedere da settimane – sui diritti dei lavoratori, o che “‘non bisogna lavorare in nero”’, suonano quasi paradossali.

Se i documenti e la necessità di un guadagno sono le loro priorità assolute, gli ospiti esprimono anche una frustrazione relativa alle condizioni materiali della struttura, alla comunicazione con gli operatori, e alla mancanza di corsi di lingua (un corso è finito a febbraio, e da allora, non ci sono stati più corsi di lingua). Inoltre, nonostante gli operatori ci dicano che, durante la pandemia da Covid-19, gli ospiti contagiati sono stati divisi dagli altri, le persone con cui abbiamo parlato ci riferiscono invece che c’era promiscuità e che addirittura dovevano condividere il bagno.

Emerge una notevole mancanza di fiducia e di comunicazione tra alcuni ospiti e gli operatori: i primi, diffidenti, ci raccontano che le pulizie vengono fatte solo quando arrivano i controlli, che il centro di solito non è sistemato e pulito come lo stavamo vedendo noi, e che sono loro di solito a fare le pulizie. Da quanto abbiamo avuto modo di vedere, la struttura non è in ottime condizioni: una doccia era rotta, un bagno appariva ristrutturato solo in parte e non era del tutto pulito. Alcuni dicono che se segnalano un problema nella struttura, entro qualche giorno viene risolto dagli operatori, mentre altri ospiti invece si lamentano: “‘Quando mi sento male, parlo con loro, ma non mi ascoltano. Mi sento troppo discriminato.” Alcuni dicono che non vale neanche la pena dire quando c’è qualcosa che non va, perché tanto non serve a niente.

Durante la visita della struttura, poco dopo le 11 del mattino, molti ospiti ancora dormono. Durante i colloqui, ci dicono di essere “stanchi”, e lamentano una mancanza di attività e di vita. “Avevamo problemi nel nostro paese, siamo scappati dalle guerre. Poi la Libia, siamo scappati. Ora la Sicilia, dobbiamo scappare di nuovo?”

La risposta degli operatori

Quando abbiamo riportato queste criticità agli operatori del SAI, loro hanno dichiarato che “‘dal punto di vista burocratico, noi facciamo tutto”’.

Gli operatori hanno accusato il Ministero e il Comune, enti responsabili per il finanziamento del centro e dei servizi, di essere manchevoli. Ci dicono che aspettano i soldi per ricominciare vari progetti. La stessa spiegazione viene data come motivo per il quale alcuni degli ospiti che avevano fatto un tirocinio in aziende agricole locali non hanno ancora ricevuto l’ultimo mese di stipendio (sei mesi dopo la conclusione), e motivo per il quale ritarda sempre il pocket money. “Se i soldi non arrivano, come facciamo noi? Già la cooperativa anticipa spesso somme di denaro”, ci ribadiscono. E gli operatori stessi non vengono pagati con regolarità. Il ritardo del trasferimento dei fondi da parte del Ministero rappresenta un grosso problema per il funzionamento del sistema di accoglienza che colpisce gli operatori che non vengono pagati e gli ospiti che non ricevono i servizi.

Ma gli operatori espongono diverse lamentele anche nei confronti degli ospiti. Quando chiediamo come rispondono agli ospiti che rilevano problemi materiali della struttura, ci dicono che “stiamo facendo la lotta al contrario perché loro sono disorganizzati”, cioè che spesso sarebbero gli ospiti a non pulire, o a non curare gli spazi del centro. Gli ospiti vengono descritti dagli operatori spesso in maniera infantilizzante, come bambini che hanno bisogno di essere salvati ed educati, invece che come uomini consapevoli dei loro diritti. Per esempio, li chiamano “‘i nostri maschietti”’, parlano puntando sull’idea del centro come famiglia, con gli operatori nel ruolo dei genitori e gli ospiti nel ruolo di bambini. Riferiscono che hanno smesso di dare i soldi agli ospiti per pagare l’autobus per Palermo al fine di frequentare il CPIA, dopo avere scoperto che alcuni di loro non andavano a scuola e usavano i soldi per fare altro in città.

Questo trattamento viene percepito, ovviamente, dagli ospiti stessi, che dicono di essere trattati o “come dei bambini” o come degli “animali”. Ma noi siamo “degli uomini adulti”, ribadiscono, e “conosciamo i nostri diritti”.

La visita fa emergere la preoccupante constatazione dell’esistenza di centri che fanno parte del sistema SAI ma che risultano assimilabili ai CAS. Gli ospiti all’interno hanno manifestato carenze e lamentele che di solito si registrano nei centri prefettizi: nessuna attività, mancanza di iscrizione a scuola, isolamento, fino al punto di chiedersi che cosa ci facessero in Sicilia.

 

Redazione Borderline Sicilia