Jusqu’au bout: le donne tunisine contro il regime di frontiera

Le donne tunisine, familiari di persone migranti scomparse, ricoprono un ruolo prezioso di memoria e di denuncia nel Mediterraneo.

Una delegazione di undici donne tunisine, madri e sorelle di migranti mort* e scompars* nel Mediterraneo, ha attraversato il mare e ha viaggiato in Sicilia e a Lampedusa dal 2 al 7 ottobre scorso per denunciare le politiche migratorie e ricercare i propri cari.

Siamo Awatef, Fatma, Gamra, Jalila, Leila, Hajer, Marwa, Nourhene, Samia, Sana, Sarra. Siamo madri, sorelle, figlie dei morti e degli scomparsi nel Mediterraneo, e nel nome di tante altre donne e famiglie siamo qui”, si sono presentate così dallo scoglio mediterraneo di Lampedusa.

È la prima volta che una delegazione così numerosa di familiari di persone migranti vittime delle frontiere visita Lampedusa e la Sicilia: le madri e le sorelle di Hedi, Mehdi, Akram, Bechir, Ramzi, Mohamed, Fedi, Hamdi, Adel, Lazhar hanno presentato delle richieste anche a nome di altre madri e di familiari che non sono potut* essere presenti. Ad accompagnarle c’erano diverse associazioni italiane e internazionali che hanno sostenuto le madri durante il viaggio, tra cui Carovane Migranti, Accoglienza Controvento, Rete Antirazzista Catanese, Borderline Sicilia, LasciateCIEntrare, Forum Lampedusa Solidale, Ongi Etorri Errefukiatuak.

 

Foto di Silvia Di Meo

 

Il viaggio in Sicilia e le Coperte della Memoria

A Lampedusa e in Sicilia le donne tunisine hanno intrecciato le loro esperienze umane e sociali nel Mediterraneo con quelle di attivist*, società civile, familiari di altre vittime della frontiera; ma anche con ONG che praticano il soccorso in mare – come Sea Watch e ResQ – che le hanno sostenute e incontrate alla Porta d’Europa, riflettendo insieme sul valore della testimonianza in mare.

Le donne hanno inoltre potuto sottoporsi all’importante prova genetica, prelevando un campione del loro DNA e fornendo i dati necessari alla ricerca e all’identificazione dei corpi che sono seppelliti nei cimiteri locali. Tra questi, il cimitero di Lampedusa, che restituisce i nomi ai morti nel Mediterraneo, trasformando i resti di un mare spinato – dove rimangono inabissate tante vite – in un luogo di memoria contro le politiche di morte.

A Cefalù le donne tunisine hanno visitato la tomba di Akram – migrante morto in un naufragio nel novembre 2019 – e così Marwa, la sorella del giovane, ha finalmente potuto pregare nel luogo in cui il fratello è stato seppellito. Il 6 ottobre – nell’anniversario della morte di Lazhar, figlio di Gamra – le donne hanno lanciato insieme in mare dei fiori in suo nome e nel nome di tutte le vittime delle frontiere. Un momento intenso per tutt*, pieno di sofferenza ma anche di forza e di cura reciproca, perché celebrare le vittime della frontiera è un atto di resistenza contro l’indifferenza che uccide.

Unite attorno alle coperte della memoria – la Couverture de la Mémoire e il lenzuolo con i nomi ricamati dei dispersi – le donne tunisine hanno assemblato centinaia di quadrati di uncinetto colorati – ciascuno rappresentativo di una vita di un/a migrante – ripercorrendo le storie delle persone che hanno preso la via del mare perché è stata loro negata la possibilità di viaggiare in maniera sicura e regolare. “La coperta della Memoria dalla Tunisia nasce con lo scopo di non permettere che l’indifferenza cancelli le responsabilità di queste morti. Per fare del racconto un mezzo di contrasto della violenza della frontiera. Per fare della memoria uno strumento di lotta collettiva”, recita il manifesto delle donne tunisine.

Ad essere intrecciate nella coperta, non sono solo le storie dei giovani tunisini che hanno fatto l’harga, ci sono anche le storie di altri migranti: ad esempio, quella dei minori subsahariani Abdou e Abdallah, uccisi dal dispositivo della nave quarantena; quella di Musa Balde, morto di CPR, e anche storie meno note, come quella di Djara, giovane guineana che è naufragata al largo di Sfax nel giugno scorso.

In questo senso la tessitura della coperta è il simbolo di una rete di cura e solidarietà che si rafforza ai due lati del mare e del mondo. Infatti, anche dal Centro America – dove nelle settimane scorse era in corso la Caravana de Madres de Migrantes Desaparecidos – è arrivata la solidarietà delle madri del progetto “Puentes de esperanza”, che ricercano i figli sulla rotta per gli Stati Uniti, accompagnate dal Movimiento Migrante Mesoamericano e Pax Christi: anche loro hanno lavorato attorno alla “Manta de la Memoria”, ricamando i nomi degli innumerevoli scomparsi.

Con un collegamento online le madri tunisine e centroamericane si sono virtualmente incontrate: “Siamo insieme in questa lotta globale contro il sistema delle frontiere”, hanno detto, condividendo le loro storie e il loro impegno, la critica al sistema dei visti e alle politiche globali che frenano i movimenti dal sud verso il nord.

 

 

Non c’è memoria senza la ricerca di verità e giustizia

Il regime del confine è fatto di discorsi, pratiche e politiche che non solo negano la vita umana, ma delegittimano anche i processi di ricerca di giustizia oltreché il riconoscimento di questa verità storica, sistematicamente rimossa.

“Dov’è Fedi? È mio diritto avere delle risposte”; “Dov’è Hamdi? Lo cercherò fino all’ultimo giorno della mia vita”, dicono rispettivamente Samia e Awatef che negli ultimi anni vivono solo per ricercare i loro cari, scomparsi nel 2021 e nel 2020.“Sono 10 anni che lottiamo contro l’indifferenza dei governi, vogliamo sapere la verità”, ha detto Hajer che ha perso due figli, Mohamed e Bechir, nel 2011.

Domando ai governi: vi sembra giusto? Quanto tempo dovremo ancora aspettare? State uccidendo anche noi”, dice Leila, madre di Yussef. Infatti, quella del confine è una violenza che non si esaurisce ai corpi senza nome ma si trasmette a chi resta in vita in attesa di sapere la verità. Chi ha guardato negli occhi queste madri e sorelle e ha ascoltato le loro voci l’ha vista, la violenza della frontiera: è tutta lì, ben visibile, la tortura di questo sistema, radicata e incorporata nelle persone che vivono una sofferenza prodotta dalle necro-politiche.

È una violenza sottovalutata e naturalizzata socialmente; è una violenza silenziata e oscurata istituzionalmente da governi che protraggono uno stato di non sapere utile a celare responsabilità politiche.

Proprio su questo, nei locali di Moltivolti a Palermo, le donne tunisine hanno avuto un importante incontro con gli/le avvocat* e le associazioni che da anni supportano le famiglie degli scomparsi. Insieme, si è discusso su come garantire alle famiglie un accesso facilitato alla denuncia di scomparsa attraverso delle procedure standardizzate e un’assistenza legale che fornisca delle soluzioni di intervento efficaci per identificare e rimpatriare i corpi delle persone migranti. Un importante passo per costruire una rete internazionale di sostegno alle famiglie che conti sull’impegno di associazioni e team legali italiani e tunisini.

Abbiamo ottenuto di più in questi 5 giorni che in 10 anni di appelli ai governi europei e al governo tunisino”. ha detto alla fine della giornata Fatma – presidente dell’Association des mères des migrants disparus – che cerca il figlio Ramzi dal 2011.

Un impegno che dovrebbe essere istituzionale e che invece si fonda sugli sforzi congiunti delle associazioni e delle famiglie – in particolare delle madri, che hanno un ruolo fondamentale – dentro spazi di solidarietà femminile e di ricerca di giustizia dal basso. Ma anche le sorelle – come Nourhene, Sarra, Soumaya, Sana e Marwa – che con i propri mezzi e le proprie risorse non si arrendono alla naturalizzazione diffusa di queste morti e di queste scomparse.

Denunciamo la politica dei visti perché mai più muoiano affogate in mare altre persone. Per due ragioni è importante continuare: per sapere la verità sui nostri figli e perché siano riconosciuti i responsabili delle tragedie”, dicono le donne tunisine, esibendo le fotografie degli scomparsi, esponendo i loro nomi nei porti siciliani, rilasciando interviste ai giornalisti e praticando la denuncia pubblica.

Jalila – che ha costituito il gruppo di donne della Coperta della Memoria Tunisia – davanti al Ministero per gli Affari Esteri tunisino ha dichiarato: “Chiediamo di fermare i crimini nel Mediterraneo, per tutti i migranti che partono, perché possano avere il diritto di circolare liberamente”.

È questa la memoria viva e attiva. Perché non esiste memoria senza ricerca di verità e giustizia.

 

Foto di Silvia Di Meo

 

Dove sono i nostri figli? Dove sono i nostri fratelli?

“Chiediamo al Comune di Lampedusa di aiutarci nel dare un nome ai corpi non identificati sepolti nel Cimitero dell’isola. Negli anni, numerosi naufragi hanno purtroppo lasciato una traccia di corpi senza vita anche nei registri di molti cimiteri siciliani. Tra queste, una approfondita ricerca pare confermare che nel cimitero locale abbiano trovato sepoltura alcuni corpi del naufragio del 6 settembre 2012, avvenuto al largo dell’isolotto di Lampione”.

“Chiediamo all’Italia e all’Europa di recuperare i corpi dei nove migranti individuati ad 80 metri di profondità nei pressi dell’isola di Lampione, vittime del recente naufragio del 30 giugno. Da poche miglia da quel luogo lanciamo un appello alla coscienza ed all’umanità della società civile italiana ed europea. Noi, Madri e sorelle tunisine, gridiamo forte nel nome delle loro famiglie: diamo loro una sepoltura, diamo loro un nome, riportiamoli alle loro comunità!”

Dai naufragi del 2012 a Lampione fino a quelli del 2021 a Lampedusa e Pantelleria, le donne tunisine hanno presentato un appello con delle richieste precise, ricordando che la memoria su queste stragi non è un atto saltuario di commemorazione del passato ma una pratica quotidiana, un esercizio del presente.

Che l’Isola di Lampedusa e la Sicilia, Porta d’Europa, diventino un luogo dove le Madri degli scomparsi lungo le rotte migratorie possano trovarsi con frequenza annuale per condividere le pratiche di ricerca e di lotta, oltreché gli strumenti per giungere alla verità per dare dignità alle vite dei nostri familiari scomparsi, portando giustizia nelle comunità (…), è l’augurio che hanno lanciato al Mediterraneo.

Infatti, attorno ai morti e agli scomparsi c’è tanta vita che pulsa, che si muove, che protesta, che denuncia. Perché ricordare è un dovere verso chi non c’è più ma anche verso chi resta.

Come ha detto Ana Enamorado – madre dello scomparso Oscar Enamorado e nota attivista in Messico per la ricerca dei desaparecidos: “Non esco mai a cercare i morti, la mia è una ricerca per i vivi”. Ugualmente, quella delle madri tunisine è anche una ricerca per chi resta, per la tutela del diritto di viaggiare – che è un diritto per la vita e per la libertà personale e collettiva.

 

Il Mediterraneo e la libera circolazione 

Proprio al di là del mare, Chamseddine Marzoug, attivista di Zarzis, è noto per aver costruito il “Cimitero degli sconosciuti” sulla frontiera tunisino-libica, dove da decenni arrivano i corpi senza nome di migranti, come avviene a Lampedusa e in Sicilia. Insieme ai pescatori che denunciano le incursioni e le violenze in mare delle milizie libiche contro tunisin* e migranti, Chamseddine si oppone a questa barbarie politica e umana.

Il suo impegno è arrivato materialmente sulla sponda siciliana: proprio pochi giorni fa, in un’installazione artistica a Palermo in occasione di “Between Land and Sea” Festival all’Ecomuseo Urbano Mare Memoria Viva, è stato esibito il progetto DEAL del fotografo siciliano Francesco Bellina che riproduce due grandi fotografie emblematiche dei rapporti tra Tunisia e Italia.

L’installazione espone la foto di Chamseddine che si prende cura della tomba di Rose Marie – una migrante nigeriana morta in un naufragio – accanto ad un’altra fotografia che immortala centinaia di container di rifiuti italiani giunti in tutta sicurezza a Sousse, in Tunisia: un accostamento eloquente che interroga sul diverso valore della libera circolazione per le merci e per le persone, in un mondo dove il profitto del sistema neoliberale prevale sulla dignità umana e sui diritti.

Dal profondo sud tunisino verso il profondo sud europeo: quest’opera mostra come all’interno di una logica occidentale di colonizzazione e di predominio economico-politico, le vittime del regime di frontiera – che devono superare i muri creati per contenere le partenze provocate dal sistema stesso – valgono meno degli scarti mercantili e non sono considerate altro che un irrilevante effetto collaterale.

Proprio per ciò, davanti all’esternalizzazione dei confini che provoca morti – dagli accordi con i Paesi terzi al potenziamento dell’approccio hotspot – valorizzare il ruolo critico delle soggettività euro-mediterranee – da soccorritori/trici ai pescatori, dalle madri tunisine a ricercatori/trici e attivist* – significa sovvertire e quindi contrastare la retorica funzionale al confinamento e alle politiche di morte.

 

Foto di Silvia Di Meo

Jusqu’au bout

Prima di lasciare la Sicilia, le donne tunisine hanno stretto un patto: Ensemble jusqu’au bout, è stata la promessa che hanno fatto mano nella mano, madri e sorelle. Jusqu’au bout: fino allo scopo, fino alla fine. Un patto di unione per continuare insieme fino a quando non emergerà la verità sulle persone scomparse nel cammino verso l’Europa. Con la stessa intenzione, le madri e le famiglie dei desaparecidos del Centro America dicono “Hasta Encontrarles”, fino a ritrovarli, in riferimento ai loro cari dispersi sulla rotta migratoria.

Una promessa piena di speranza, di giustizia, ma anche di sostegno reciproco, di cura solidale.

Jusqu’au bout è il nostro simbolo” – ha spiegato Jalila – “e per questo insieme continueremo a costruire un ponte tra le sponde del mare”.

Allora l’impegno delle donne tunisine in favore dei diritti delle persone migranti va incoraggiato e sostenuto. Perché se l’oblio sostiene le fondamenta del sistema di frontiera, la memoria è senz’altro lo strumento di rottura di questo regime violento.

In questo senso, le madri e le sorelle delle persone migranti sono le custodi e le testimoni di un’altra Storia.

Soprattutto, la loro presenza attiva sulla frontiera è un monito per le istituzioni ai due lati del mare: la lotta delle donne del Mediterraneo non si arresta e continuerà a pretendere giustizia.

Jusqu’au bout.

 

Silvia Di Meo

Borderline Sicilia, Carovane Migranti, Accoglienza Controvento, Rete Antirazzista Catanese, LasciteCIEntrare, Ongi Etorri Errefukiatuak