Il Mediterraneo conteso

Come accade ogni mese – da un anno e mezzo a questa parte – mercoledì 29 Settembre una nave quarantena, la GNV Atlas, è attraccata al porto di Catania.

Rispetto a quanto abbiamo raccontato nell’ultimo anno e mezzo, però, questa volta la nave quarantena non ha sbarcato i suoi “passeggeri” in silenzio, incapsulandoli in pullman diretti verso centri d’accoglienza o di detenzione sparsi per la Sicilia e l’Italia; questa volta, lo sbarco della nave quarantena è stato rumoroso. Infatti, a partire da mercoledì mattina e fino al giorno dopo, più di un centinaio di persone – principalmente egiziane, ma qualcuna anche tunisina e marocchina – sono state lasciate andare con un foglio di via che indicava loro di allontanarsi dal territorio italiano entro sette giorni attraverso l’aeroporto di Fiumicino a Roma, sebbene molte di loro avessero domandato in più occasioni di accedere alla protezione internazionale.

La piazza della stazione di Catania si è riempita di persone visibilmente stanche e disorientate, che non avevano chiaro dove si trovassero, ma sapevano bene cosa volevano: andarsene. In contatto con amici o parenti in altre parti di Italia e d’Europa, le persone alla stazione si sono organizzate in autonomia per proseguire il loro viaggio nel continente europeo.

Si sono però scontrate contro il nuovo dispositivo igienico-sanitario anche una volta sbarcate dalla nave quarantena. Infatti, per uscire dalla regione con un bus o un treno è ora necessario avere il green pass o un tampone negativo effettuato entro le 48 ore precedenti. E, sebbene prima di scendere dalla nave quarantena gli fosse stato fatto un tampone antigenico, per quelle di loro che non sono riuscite a partire entro la stessa giornata, le 48 ore sono scadute la mattina seguente.

È in questo contesto che gli interessi di politica interna italiana – far vaccinare quante più persone possibili senza dover annunciare un obbligo vaccinale – si tramuta in un’ennesima barriera per le persone in transito. Da qualche settimana, infatti, per chi non ha il green pass, i tamponi – anche quelli antigenici – sono a pagamento. Un problema serio, tanto più per chi arriva dall’altra sponda del Mediterraneo spesso senza soldi e documenti.

Come associazione abbiamo sostenuto logisticamente dieci persone che avevano bisogno di ottenere un tampone e che – dopo più di cinque ore di lotte con la burocrazia dell’hub vaccinale e dei tamponi – sono riuscite a finalmente a partire.

 

Nuove politiche di esternalizzazione

In realtà, già durante l’estate sono state segnalate persone alla stazione di Catania, segno che il sistema di gestione migratoria che ha funzionato durante l’ultimo anno di pandemia si sta nuovamente trasformando. Infatti, a partire da maggio gli arrivi costanti a Lampedusa e in tutte le coste del sud Italia hanno messo in difficoltà i passaggi rapidi e silenti dall’hotspot dell’isola alle navi quarantena fino ai centri – di accoglienza o di detenzione.

Sovraffollamento, scarse condizioni igieniche, proteste, fughe e denunce si sono susseguite, portando il governo italiano, in pieno accordo con i piani europei, verso “innovazioni”, sempre nell’ottica di accelerare il processo di esternalizzazione della frontiera meridionale. E così il governo ha rifinanziato gli accordi con la Libia e la Tunisia, rafforzando entrambe le guardie costiere che, con la collaborazione di Frontex, cercano di bloccare le barche che attraversano il Mediterraneo prima che queste possano raggiungere le acque territoriali italiane. Accordi che sul piano politico vanno avanti senza nessuna opposizione, mentre diversi tribunali italiani da alcuni anni dichiarano la Libia paese non sicuro.

È notizia del 14 ottobre la condanna da parte del Tribunale di Napoli del comandante della Asso28 che aveva consegnato alla guardia costiera libica i migranti appena salvati. Ed è all’interno di questo piano di esternalizzazione della frontiera che negli ultimi mesi – e in particolare durante la scorsa primavera – centinaia di persone egiziane sono state rimpatriate in Egitto o – inspiegabilmente – deportate in Tunisia, un paese a tremila chilometri di distanza dal loro. Una pratica illegittima che si aggiunge alla già inquietante e preoccupante applicazione dell’accordo di riammissione firmato con l’Egitto nel 2007.

Il governo italiano, nonostante il caso Regeni, il caso Zaki e tutte le denunce delle gravissime violazioni di diritti umani in Egitto, continua a portare avanti una stretta e vergognosa collaborazione con il paese di Al Sisi. La sorte di essere rimpatriati in Egitto sarebbe potuta toccare anche alle cento persone che sono sbarcate a Catania il 29 settembre scorso – dopo un passaggio in Cpr – se non fosse stato per la mobilitazione di LasciateCIEntrare che è riuscita a far muovere l’Unhcr. Le pressioni sul ministero degli interni, sono servite ad evitare la detenzione e il successivo rimpatrio ma si è trattato comunque di un respingimento di massa, che ha negato a queste persone l’accesso alla domanda di protezione internazionale.

 

Spostare lo sguardo: cosa succede in nord Africa

Gli effetti dello spostamento del confine a sud della Sicilia sono già evidenti, e in queste settimane ci sono stati due casi emblematici. A fine settembre, quattro imbarcazioni con a bordo persone subsahariane e tre con persone tunisine sono state intercettate dalla guardia costiera tunisina poco dopo la partenza dalle coste del paese. Subito dopo che le imbarcazioni sono arrivate a terra, le persone subsahariane sono state portate con violenza al confine tra Tunisia e Libia e lì, con armi puntate in faccia, sono state espulse attraversando il confine con la Libia, abbandonate nel deserto, dove un gruppo è stato rapito e un altro arrestato, e una donna ha partorito.

E in Libia la situazione continua ad essere drammatica. Negli stessi giorni dei fatti avvenuti al confine con la Tunisia e dello sbarco della nave quarantena, un raid poliziesco ha portato all’arresto di migliaia di persone migranti nei sobborghi di Tripoli – in una presunta operazione antidroga. Le persone sono state portate in diversi centri, dove ci sono state violenze e dove sei di loro, nel tentativo di scappare, sono state uccise dai colpi di fucile della polizia.

A seguito di questo episodio, centinaia di persone – che nel corso dei giorni sono diventate migliaia – si sono accampate davanti al Community Day Center (Cdc) dell’Unhcr per chiedere l’immediata evacuazione da un paese in cui la loro vita è a rischio. Senza nessuna risposta concreta da parte dell’organismo internazionale, il presidio continua ormai da tredici giorni e non accenna a fermarsi.

È importante raccontare episodi come questi perché non è vero che in nord Africa si soffre e basta, in silenzio. La resistenza esiste in Libia così come esiste in Tunisia, come hanno dimostrato undici donne tunisine che sono venute in Italia tra il 2 e il 7 ottobre per continuare la ricerca dei loro figli scomparsi e per denunciare la violenza del confine che uccide o fa scomparire in mezzo al mare, spezzando legami e lasciando la vite di madri, sorelle, padri e fratelli in un limbo infinito alla ricerca della verità.

Sono venute per cercare verità sulla scomparsa dei loro figli e per tessere le fila di un legame nuovo tra le diverse sponde del Mediterraneo, che a partire da un percorso di memoria attiva che ricordi i nomi e le voci delle persone scomparse nel Mediterraneo chiede giustizia e propone un’alternativa. Noi le abbiamo incontrate e abbiamo capito.

 

Emilio Caja

Borderline Sicilia