Dalla Libia al limbo degli hotspot: il destino dei richiedenti asilo soggetti alle procedure di ridistribuzione

Sbarcare dalle navi, dopo settimane in balia del mare e delle decisioni degli stati europei, non segna la fine del viaggio dei migranti, ma l’inizio di un’altra difficile fase dell’esperienza migratoria. Dopo lo sbarco, scenario di una spettacolarizzazione esasperata, il destino di coloro che per lunghissimo tempo hanno subito una violenza inaudita, è affidato ad una serie di procedure che dovrebbero consentire la ridistribuzione dei soggetti tra le differenti nazioni dell’UE.

L’hotspot di Pozzallo (RG)

Queste procedure – sulla base degli accordi estemporanei presi di volta in volta dietro il ricatto del governo italiano di lasciare in mare le persone soccorse – hanno l’effetto di allungare il periodo di trattenimento dei migranti negli hotspot: tale misura non migliora perciò la condizione di chi è costretto a vivere un luogo/non luogo dove ci si sente completamente sospesi, nel tempo e nello spazio. Si tratta di meccanismi che confermano e perpetrano abusi, a discapito unicamente dei soggetti coinvolti che vivono ri-traumatizzazioni di tutto quello che hanno già vissuto nel viaggio verso l’Europa.

Questa politica che ha interessato numerosi sbarchi da un anno e mezzo a questa parte – tra gli ultimi quelli della Sea Watch, della Gregoretti, dell’Open Arms – è conseguenza delle misure di chiusura del governo italiano e del suo appello ai “porti chiusi”, con il divieto di sbarco per le navi umanitarie (e non solo), nel solco della criminalizzazione delle ONG – che secondo l’ex ministro degli interni sarebbero colluse con i trafficanti (mentre nel frattempo migliaia di persone continuano ad arrivare autonomamente a Lampedusa).

Perciò, sebbene queste misure europee di ridistribuzione delle persone migranti vengano proposte come soluzioni umanitarie al blocco degli sbarchi, in realtà non sono altro che la controparte della mano securitaria che blinda i confini dell’Italia e dell’Europa meridionale: una politica perfettamente in linea con la governance punitiva e detentiva che caratterizza la criminalizzazione dei migranti e dei soccorsi in mare. Esiste, infatti, un continuum tra quello che i migranti subiscono in Libia, poi in mezzo al mare, fino a quello che vivono una volta giunti negli hotspot italiani: il potere coercitivo plasma e dà forma ad un sistema di limitazione delle libertà che concepisce le persone non come soggetti autonomi ma come corpi da disciplinare, contenere, ripartire.

Procedure europee di ridistribuzione negli hotspot siciliani

Tali procedure di ridistribuzione costituiscono una novità all’interno del panorama giuridico del diritto di asilo dell’Unione europea. Se infatti, secondo i criteri del Regolamento di Dublino, il paese responsabile all’accoglienza è, a meno di casi particolari, il primo paese di arrivo, la chiusura dei porti e il costante braccio di ferro tra i poteri nazionali e le istituzioni europee ha decretato una messa tra parentesi dei criteri di assegnazione sanciti da esso.

Eppure non è la prima volta che la distribuzione dei migranti avviene al di fuori del sistema Dublino. Nel 2015, la Commissione europea aveva vagliato delle procedure di ricollocamento (cd relocation) per diminuire la pressione migratoria sui paesi del Mediterraneo, avviando la ricollocazione di alcune nazionalità più a rischio, e dunque con più possibilità di ottenere una protezione internazionale (individuate con il 75 per cento di tasso di riconoscimento dell’asilo). Ma i risultati raggiunti dal programma di ricollocamento si sono dimostrati pressoché nulli, con solo il 2% di ridistribuzioni effettuate a un anno dall’inizio del progetto.

Le procedure di ridistribuzione a cui stiamo assistendo da quando l’Italia è diventata ostaggio di forze politiche che hanno agito in spregio alle norme sancite dai trattati internazionali, non hanno nessun fondamento giuridico-normativo e dunque nessuna regolamentazione. O meglio, sono basate su una clausola del Regolamento di Dublino sancita dall’art. 17, che prevede la possibilità da parte uno stato membro di prendere in carico l’accoglienza di determinati richiedenti asilo senza dover considerare i criteri di assegnazione del trattato.  Ciò rende la ridistribuzione un accordo fra Stati quasi del tutto informale e senza nessun criterio di selezione regolamentato e normato.

Il nostro monitoraggio relativo alle procedure poste in essere negli hotspot di Pozzallo e Messina, effettuato in collaborazione con il progetto In Limine di ASGI, ha potuto appurare l’arbitrarietà della ridistribuzione. In primis, i tempi di permanenza all’interno dell’hotspot si sono considerevolmente allungati nell’attesa dell’arrivo delle delegazioni dei paesi europei e successivamente dei tempi del trasferimento.

Non solo, ma la mancanza di una regolamentazione vera e propria fa sì che non ci siano delle motivazioni logiche per la scelta dei migranti intervistati dalle varie delegazioni: la decisione spetta ai paesi membri che effettuano selezioni basate prevalentemente su questioni di nazionalità, religione, etnia, sicurezza e terrorismo. Per esempio, la delegazione francese ha quasi sempre scelto di intervistare francofoni, provenienti dalle ex colonie o zone di influenza, verificandone la capacità integrativa accertandosi dell’aderenza o meno ai “valori occidentali”. Infatti, abbiamo appurato che le domande poste dalle delegazioni non hanno niente a che vedere né con la storia personale né con il diritto di asilo, ma sono sempre volte a valutare la presunta ”occidentalità” del migrante. A molti francofoni musulmani è stato per esempio chiesto se sposandosi con una persona francese, le avrebbero imposto o meno il velo; quale sarebbe la reazione se il proprio figlio dovesse rivelarsi omosessuale e se tradirebbero o meno un connazionale con intenti terroristici.

Domande che non solo non sono attinenti allo scopo che le delegazioni dovrebbero avere, ma che faziosamente tendono a rendere disagevole l’intervista, con i migranti che devono sostanzialmente difendersi da accuse, piuttosto che rispondere a delle domande.

A questa criticità si aggiunge la totale mancanza di informazioni relative alle procedure di ricollocamento di coloro che vengono scartati dalle delegazioni – le quali non sono obbligate a farsi carico di un numero prestabilito di migranti.

In questo senso, se l’accordo tra i vari paesi europei volto a sbloccare l’impasse delle navi con divieto di attracco era stato accolto anche in maniera celebrativa da parte dei migranti stessi e dalla società civile, purtroppo l’arrivo in Europa si trasforma in un altro ostacolo al ritrovamento della libertà e dell’autonomia per queste persone.

L’approccio hotspot a Pozzallo e Messina: trattenimento e privazione della libertà in un regime di frontiera 

La situazione degli hotspot di Pozzallo e Messina, che abbiamo monitorato negli ultimi giorni insieme agli operatori ASGI del progetto In Limine, incontrando alcune delle persone a cui è consentito di uscire dalla struttura, dimostra come le politiche che definiscono il regime di trattenimento interno ai centri sia marcata da misure di controllo e sorveglianza attraverso trattamenti inumani e degradanti.

Il sistema hotspot già nella sua regolamentazione normativa presenta delle gravissime criticità di legittimità costituzionale, per quanto riguarda la previsione del trattenimento a fini identificativi fino a 30 giorni e senza la previsione di una convalida giudiziaria, ed in più, nella prassi si presentano come luoghi contenitivi e selettivi dove i migranti sono lasciati in stallo per mesi in condizioni di violazione della libertà e di mancata assistenza legale e sanitaria.

Ancor prima di Pozzallo e Messina, occorre rilevare la situazione pessima all’interno dell’hotspot di Lampedusa, che può permettersi di offrire servizi scadenti (penuria di letti, gente che dorme a terra, mensa inesistente) dal momento che funge da hub temporaneo prima del ricollocamento a Pozzallo o Messina, non avvenendovi i colloqui con le delegazioni europee.

Pozzallo

Nell’hotspot di Pozzallo sono presenti al momento circa 300 persone arrivate in periodi e con sbarchi differenti:  67  della nave della Guardia Costiera Gregoretti,  70 della nave Open Arms, decine di nordafricani giunti a Lampedusa e i 70  della nave Eleonore della ONG Lifeline arrivati lunedì scorso. Le nazionalità delle persone nell’hotspot sono varie: Sudan, Eritrea, Costa d’Avorio, Etiopia,Senegal, Niger, Nigeria, Algeria, Gambia, Tunisia, Libia.
La condizione all’interno della struttura sovraffollata è privativa e disagevole: i migranti raccontano che non ci sono posti letto per tutti e sono costretti a dormire per terra e in promiscuità, i bagni sono insufficienti, le condizioni igieniche sono critiche.

Una condizione gravissima che emerge dai loro racconti riguarda la sorveglianza delle persone: rilevanti sono le misure di sequestro dei telefoni, oltre che   le pressioni che gli operatori e i sorveglianti del centro hanno esercitato su di loro, ammonendoli di non avere comunicazioni con persone esterne  e minacciandoli, in caso contrario, di punirli. A questo si sono aggiunte negli ultimi giorni perquisizioni e controlli degli oggetti che i migranti hanno con sé, nelle entrate e nelle uscite quotidiane dal centro.

Messina

All’hotspot di Messina la situazione peggiora sul piano medico e psicologico: all’interno del centro ci sono circa 50 persone, di cui 42 sono arrivate con lo sbarco della Sea Watch 3 e sono in attesa di essere trasferite da più di due mesi. I restanti sono gli 8 migranti arrivati con la nave Cigala Fulgosi e alcune famiglie provenienti dal CAS di Villa Sikania. I richiedenti asilo attualmente presenti nel centro – provenienti da Senegal, Burkina Faso, Ghana, Camerun, Mali, Niger, Costa D’avorio, Guinea Conakry- alloggiano in differenti containers da circa 12 posti ciascuno.

Le persone incontrate in questi giorni, tutte richiedenti asilo, provengono dal salvataggio della Sea Watch 3 del 29 giugno scorso. Nel dialogo con loro emergono gravi condizioni di salute: ferite aperte, lesioni, serie infezioni ginecologiche, oltreché necessità di assistenza psicologica urgenti. Una donna, con varie ferite sul petto e la necessità di assumere antibiotici, ci racconta che non le è stato somministrato alcun  farmaco per la sua condizione e  che nessun pediatra ha mai visitato il suo piccolo di sette mesi. Un’altra persona riferisce di non avere soldi per comprare in farmacia le medicine di cui necessita e che gli operatori del centro le hanno comunicato che sarà il paese di destinazione finale a prendersi cura della sua salute.

Una giovane donna racconta la paura paralizzante che l’assale durante la notte, ricordando gli orrori della Libia, e l’impossibilità di dormire anche se sa che ora si trova in Europa: “A volte dimentico di trovarmi in un paese democratico, sento di essere in pericolo e ritorna il terrore”, dice.
Senso di abbandono, frustrazione e angoscia caratterizzano i discorsi dei migranti che spesso non riescono a comunicare le loro istanze a chi di dovere:  il mediatore culturale e linguistico messo a disposizione dall’hotspot non è in grado di comunicare con le persone, non conosce bene il francese e fraintende perciò le richieste che gli vengono rivolte.

Tuttavia molti migranti si fanno forza acquisendo consapevolezza dei loro diritti e aspettando con ansia il momento della partenza verso i paesi europei, molti dei quali già hanno notificato i provvedimenti di trasferimento senza però comunicare quando effettivamente avverranno.

Ci riferiscono che non è stata effettuata l’informativa socio-legale, quindi molti non conoscono i loro diritti e il sistema di ridistribuzione a livello dei paesi europei. Infatti, tanto a Pozzallo quanto a Messina la gestione delle informazioni diviene un mezzo di controllo della vita dei richiedenti asilo: le persone vengono lasciate perlopiù nell’ignoranza. Molti credono che i colloqui con le delegazioni dei paesi europei coincidano con l’accettazione della richiesta di asilo, altri sono persuasi che sia meglio non procedere con l’iter di formalizzazione della domanda tramite compilazione del modulo C3 perché di conseguenza questo comporterebbe l’obbligo di rimanere in Italia. Molti migranti, sia a Pozzallo che a Messina, non hanno ricevuto nessun documento che attesti che sono richiedenti asilo o comunque hanno ottenuto solo una copia incompleta della documentazione relativa alla domanda di protezione.

Quasi tutte le persone con cui abbiamo parlato ci riferiscono di non essere informate sul tempo di attesa e che in molti casi non hanno avuto traduzione, spiegazione e rilettura da parte del mediatore dei documenti che hanno firmato, sia durante  i colloqui con i funzionari di EASO che durante quelli svolti con le delegazioni dei paesi europei.

Privazione della libertà e pratiche di trattenimento oltre il limite di tempo previsto, processi di selezione informale ad opera delle delegazioni europee, trattamenti degradanti, sequestri e perquisizioni dipingono gli hotspot in questione come luoghi detentivi e punitivi. A Pozzallo come a Messina, l’arbitrarietà delle decisioni funziona come dispositivo coercitivo atto a reiterare la violenza della privazione, chiarificando le prassi illegittime che la sovranità europea ha disposto lungo i suoi confini, dai paesi di partenza fino a quelli di arrivo.

Di fatto, le (assenti) politiche di accesso, che dovrebbero a gestire i flussi migratori e stabilire i criteri per accedere al territorio, e le politiche dei diritti che dovrebbero definire risorse e possibilità dei migranti, costituiscono invece solo un apparato di controllo che governa e gestisce le popolazioni in transito, ritardando l’autonomia e l’emancipazione dei soggetti migranti.

La violenza perpetrata dalla Libia all’Italia

Le procedure europee di ridistribuzione – rappresentate e raccontate come la soluzione al problema del blocco degli sbarchi da parte dell’Italia – non sono altro che la continuazione di misure politiche di privazione della libertà nei confronti dei migranti. Dalla detenzione nei lager libici dove subiscono sevizie e torture di ogni tipo al devastante viaggio in mare, dal trattenimento a bordo delle navi in attesa di un posto di sbarco alla spettacolarizzazione dell’approdo,  fino alla detenzione prolungata negli hotspot, le persone  che viaggiano verso l’Europa vivono processi di violenta e continuata traumatizzazione.

Queste dinamiche consolidano e ridefiniscono – sotto forme e modalità ogni volta rinnovate – i meccanismi di limitazione della libertà: le violente misure di gestione bio-politica si ripropongono anche dopo il superamento delle frontiere, con il confinamento della mobilità, la reclusione illegittima, la violenza fisica e psicologica, la condizione di vulnerabilità indotta. Con le sofferenze protratte, frutto del braccio di ferro tra i poteri sovranisti e l’Europa, il migrante deve fare i conti anche una volta giunto nella democratica Europa. La manifestazione del potere coercitivo si esprime nell’omissione delle cure, nella mancanza dell’informativa sociale e legale, nei maltrattamenti dati dalle condizioni di vita degradanti, nelle perquisizioni tanto verbali – attraverso i quesiti illegittimi posti dalle delegazioni europee – quanto fisici – con le ispezioni degli oggetti personali, fino alle brutali minacce punitive.

Occorre pertanto accendere i riflettori e raccontare ciò che accade dopo lo sbarco, per far sapere che fine fanno le persone che dopo i salvataggi e il vergognoso impedimento all’approdo sicuro, diventano oggetto di bracci di ferro tra stati, disumanizzati e ridotti a merce da scegliere o scartare. L’ennesimo atto di disumanizzazione costretti a subire, nel loro cammino, anche e soprattutto dalla civile Europa.

 

Silvia Di Meo

Valeria Grimaldi

Peppe Platania

Borderline Sicilia